Antonio Boggia il mostro di Milano di Luca Steffenoni

Il 12 novembre 1861 si apre il processo al mostro che ha ucciso quattro persone occultandone i resti in cantina. È il primo grande processo penale a pochi mesi dall’Unità d’Italia e sarà l’ultima condanna a morte fino alla reintroduzione sancita da Mussolini nel 1926.

Ogni biografia, anche quella di coloro che si disinteresserebbero volentieri dei rivolgimenti storici e politici, è profondamente legata agli episodi che, giorno dopo giorno, granello dopo granello, edificano la cornice dell’agire. Pochi anni in più o in meno in una vita possono fare una bella differenza. Figuriamoci nel delitto.

La prima grande vicenda criminale, venuta alla luce all’indomani dall’Unità d’Italia, ne è la chiara dimostrazione.

I misfatti di Antonio Boggia, più comunemente chiamato “il mostro di Milano” e la sentenza che l’ha condannato all’ultima pena capitale comminata in Italia (fino alla sua reintroduzione sancita da Mussolini nel 1926), sono la prova di quanto spesso la cronaca nera “comune” e i fatti più squisitamente storici, vadano a braccetto, influenzandosi vicendevolmente.

Antonio Boggia

Nato a Urio sul lago di Como, nel 1799, il Boggia non si può certo definire un galantuomo. Non era ancora giunto al ventesimo compleanno quando aveva abbandonato il Lombardo Veneto governato dagli Asburgo per scappare nel vicino Regno di Sardegna, inseguito da numerose denunce per truffa e da una corposa risma di cambiali non onorate.

Spostare la residenza in un piccolo comune vicino a Novara non aveva tuttavia portato un gran giovamento al carattere del giovane Antonio e nemmeno alla sua posizione giudiziaria. All’età di 25 anni, i guai si erano ripresentati sotto forma di una condanna per rissa e di una, ben più grave, per tentato omicidio, reati che avevano fruttato una condanna a quattro anni di reclusione nelle carceri savoiarde. Ne sconterà molto meno, riuscendo ad evadere, per riparare nuovamente nel Lombardo-Veneto, attratto, questa volta, dall’anonimato della grande città.

Milano, ignara dei suoi trascorsi, lo accoglie a braccia aperte, anche perché l’uomo è vispo e intelligente. Durante il soggiorno in terra piemontese non è stato con le mani in mano e, oltre ad aver imparato il mestiere di muratore, ha approfittato dell’amicizia carceraria con un militare austriaco per acquisire qualche rudimento della lingua tedesca. Grazie a queste conoscenze riuscirà a farsi assumere a palazzo Cusani, sede del Governo Austriaco, in qualità di fochista, divenendo presto lo stimato responsabile del complesso sistema di riscaldamento, dal quale dipendeva gran parte del confort della guarnigione durante i freddi mesi invernali.

Lo stabile nel quale abitava il Boggia

Quando non lavora a palazzo, il Boggia si occupa dello stabile di via Nerino  nel quale abita. Gli errori di gioventù sembrano superati, sepolti sotto migliaia di carte vergate dallo stemma dei Savoia, custoditi da tribunali che non hanno alcun interesse a collaborare con quelli lombardi. Il Boggia trovò anche il tempo per sposarsi e per restare presto vedovo, con un bel gruzzoletto di rendita proveniente da alcuni boschi appartenuti alla moglie.

Ma ancora una volta il destino sembrava voler sconvolgere la sua apparente tranquillità.

Mentre si avviava serenamente ai cinquant’anni, le monarchie europee rimescolarono le carte geografiche, annettendo Milano e tutta la Lombardia al Piemonte. In sostanza era scappato da una parte per ritrovarsi i persecutori sotto casa.

C’è un’altra data significativa nel suo percorso: il 17 giugno 1859 a palazzo Cattaneo, viene istituita l’Arma dei Carabinieri che avrà tra le altre incombenze quella di reprimere il crimine comune. 

Il 26 Febbraio 1860, negli austeri uffici di via della Moscova, si presenta un certo Giovanni Mourier, decoratore e artista di poca fama, figlio della proprietaria dello stabile di via Nerino nel quale abita Antonio Boggia, per denunciare la scomparsa della madre, Ester Perrocchio di settantasei anni che, da mesi, non dà più notizie di sé.

Come se ciò non bastasse, portavoce e amministratore dei molti beni della signora si è autonominato Antonio Boggia che, da factotum, si è trasformato in despota degli affittuari, ai quali ha indebitamente raddoppiato il prezzo dell’affitto.

Il fochista, ormai in pensione, viene immediatamente convocato in caserma dove spiega che la Perrocchio, prima di ritirarsi nel Comasco, gli aveva lasciato regolare procura, controfirmata da un notaio locale, insieme alla richiesta di non rivelare il luogo del proprio soggiorno.

I carabinieri si ritennero soddisfatti delle spiegazioni. Non altrettanto un certo giudice Crivelli il quale volle vederci un po’ più chiaro sobbarcandosi un supplemento d’indagine.

Non ci volle molto per scoprire i trascorsi piemontesi del Boggia. Non solo. Si scoprì anche un ulteriore tentativo di omicidio, risalente al 1851, ai danni di un tale Comi al quale l’amministratore di via Nerino, in preda a raptus apparentemente inspiegabile, aveva tirato addosso un cuneo di legno normalmente utilizzato per spaccare la legna, prima di brandire una scure e cercare di farlo a pezzi.

il mostro in azione

Un altro precedente, dunque, rimasto sommerso tra le carte della ormai disciolta Guardia di Pubblica Sicurezza, che aveva causato al Boggia un periodo di internamento alla Senavra, una sorta di manicomio per soggetti ritenuti violenti o alcolizzati.

Il giudice Crivelli ascoltò per primo il notaio Bolza, garante della procura, con ufficio a Como. Questi, con molto imbarazzo, confessò di aver chiuso un occhio sulla capacità di intendere e di volere della signora presentatasi nel suo studio insieme al beneficiario.

Qualche cosa non quadrava. Iniziò a quadrare quando il giudice scoprì che il sospettato aveva un’anziana cugina ricoverata per demenza senile in un ospizio e che questi, proprio il giorno della firma sulla famosa procura, l’aveva prelevata e accompagnata a fare una bella gita sul lago.

A tutto ciò andava aggiunto che alcuni inquilini di via Nerino avevano visto il Boggia armeggiare in un magazzino dell’adiacente via Bagnera con sacchi da muratore, mattoni e sabbia. Non restava che dare un’occhiata al polveroso locale.

Via Bagnera

Una nicchia murata di fresco risuonava stranamente vuota. Il corpo dell’anziana donna apparve all’improvviso: un tronco privo di gambe, che reggeva in braccio la propria testa orrendamente mutilata. Mentre la folla si radunava davanti allo stabile nel quale il tremebondo assassino attendeva la sua sorte, i carabinieri diedero un’occhiata dentro all’appartamento. Le sorprese non erano finite. Da una scrivania emersero altre due procure sospette.

La prima, datata marzo 1849, riguardava un certo Angelo Serafino Ribbone, manovale e compaesano di Urio che, come risultò da alcune testimonianze, aveva per un certo periodo lavorato con il Boggia e del quale, naturalmente, si erano perse le tracce.

Il foglio di carta bollata lo autorizzava a prelevarne gli averi custoditi da un’anziana parente sotto il fatidico materasso.

Bisognava, dunque, aprire una nuova inchiesta e sobbarcarsi un altro viaggio, questa volta fino ad Urio, dove l’anziana donna viveva.

Al giudice Crivelli la contadina spiegò che il Boggia si era effettivamente presentato a casa sua munito di una carta scritta, ma che lei non era certo caduta nel tranello. Intanto, perché non sapeva leggere e dunque della procura non sapeva che farsene; in secondo luogo, perché la logica le diceva che, se il legittimo proprietario avesse desiderato riavere i propri soldi, sarebbe venuto lui stesso a reclamarli e non avrebbe mandato quello sconosciuto signore di città. Tanta arguzia tuttavia era servita a poco, giacché il delegato si era presentato davanti all’uscio, scortato da due carabinieri della locale caserma, che le avevano intimato di consegnare tutto il denaro richiesto.

Nella casa del Boggia c’era un’altra procura. Riguardava Pietro Meazza, capostipite di una celebre famiglia milanese, che aveva una bottega di viti, chiodi, bulloni e attrezzi vari, in via San Sisto. Si trattava di una procura a vendere l’attività commerciale e i muri del negozio.

Tra l’acquisto di una cazzuola e l’altra, il funambolico fochista l’aveva convinto che, grazie alle sue conoscenze, non avrebbe avuto difficoltà a trovare chi rilevasse tutto il pacchetto. Per esempio conosceva un certo Angelo Serafino Ribbone che sicuramente si sarebbe procurato il contante per acquistarlo a buon prezzo.

Messi insieme tutti i tasselli dell’inchiesta, al giudice non restava che l’ingrato compito di restituire i cadaveri alle loro famiglie. Dagli abitanti del quartiere si venne a sapere che il Meazza, possedeva anche una cantina, ubicata nell’ormai famosa via Bagnera, nella quale teneva il carbone. Naturalmente aveva dato le chiavi all’improvvisato agente immobiliare, affinché la facesse visionare da ipotetici clienti. Era la traccia che il giudice attendeva.

Il negozio del Meazza

Con un nutrito gruppo di corpulenti carabinieri, improvvisatisi operai, aprì l’antro dell’orco, sicuro che quei muri nascondessero la tomba dei due sventurati. Le sorprese non erano ancora finite.

Il Boggia questa volta aveva tralasciato i muri per concentrarsi sul pavimento, sotto il quale aveva ricavato uno spazio sufficiente per nascondere i corpi delle sue vittime, ricoprendo il tutto con assi e sabbia compressa. Il risultato del sopralluogo si rilevò sorprendente: al posto dei due cadaveri, ve n’erano tre. Un morto misterioso si aggiungeva al Ribbone e al Meazza e dargli un nome non appariva così semplice.

Nemmeno si poteva confidare sull’aiuto del Boggia che, rinchiuso a San Vittore, interpretava benissimo il ruolo del pazzo, unico modo per risparmiarsi la corda del boia. Girava nudo per la cella, alternava salmi biblici a parole senza senso, si diceva posseduto dal demonio, parlava di una voce interiore che gli aveva intimato di uccidere. Insomma, le provava tutte, ma senza un gran successo

Il ritrovamento di un cadavere

Ormai il dottor Jekyll milanese era sulla bocca di tutti e i cittadini che avevano un parente o conoscente che risultasse irreperibile, facevano la coda davanti a palazzo Cattaneo per fornire elementi utili ad identificare il cadavere misterioso.

Tra le tante segnalazioni ne arrivò una interessante. Un uomo, che conosceva bene il Boggia, era sicuro di averlo visto al Monte di Pietà in occasione di un’asta giudiziaria in compagnia di un altro conoscente, tale Giuseppe Marchesotti, commerciante di granaglie all’ingrosso.

Guarda caso, il 15 gennaio 1860, la madre di quest’ultimo aveva sporto denuncia per la sua scomparsa. Prima di svanire nel nulla l’uomo aveva però prelevato i suoi beni dalla banca e aveva confidato alla donna di avere un buon affare in testa. Testa che, sospettavano gli inquirenti, era poi rotolata in via Bagnera. Tutti i tasselli finalmente erano al loro posto.

Un romanzo popolare dell’epoca

Date le premesse, il processo, iniziato il 18 novembre 1861, fu solo una formalità e un vero spettacolo per i pochi che, messisi in coda fin dalla notte precedente, erano riusciti a conquistare un posto in prima fila nell’aula giudiziaria.

Dopo soli cinque giorni di dibattimento la Corte lesse il fatidico verdetto: pena di morte mediante impiccagione.

Prima di mettere la parola fine alla vicenda del mostro della Bagnera, come ormai tutti chiamavano Antonio Boggia, c’era però un ultimo problema da risolvere: in città mancava un boia. Per la verità, la legge ne richiedeva ben due, nel caso uno, per scrupolo o per malessere, si fosse trovato sul più bello nell’impossibilità di aprire la fatidica botola. Dopo varie ricerche si trovarono due professionisti, uno di Torino e uno di Parma e fu possibile procedere all’esecuzione.

All’alba del 9 aprile 1862 una folla di curiosi, sfaccendati e fieri giustizialisti fecero da corteo al carro che usciva dal portone del carcere di San Vittore per portare il condannato al patibolo, posto in un terreno pubblico adiacente i Bastioni tra Porta Ludovica e Porta Vigentina. La stampa e, in particolare, il quotidiano Lombardia, deprecò per lungo tempo quello spettacolo pubblico ritenuto ormai obsoleto e distante dalla sensibilità post-illuminista che faticosamente stava facendosi strada nel Paese. Forse anche questo contribuì all’abolizione della pena di morte, decretata il mese successivo.

Il cranio del Boggia conservato al museo Lombrosiano

Ormai però era fatta. Corpo e testa del Boggia presero due destini diversi. Il primo fu sepolto, il cranio invece fu affidato agli studi di Cesare Lombroso che, una volta messo in formalina, si dedicò con cura ai suoi studi frenologici dai quali trasse la conferma delle teorie circa il delinquente nato.

A cura di:

Clicca sull’immagine per accedere al sito dell’autore

  • Post author:
  • Post category:NOIR