BTP: ghiotta occasione? di David Volpe

L’anno che si avvicina alla conclusione ha messo a dura prova i nervi degli investitori più o meno esperti.

Ciò che fa più male è il ribasso che ha colpito soprattutto i portafogli più conservativi concentrati sugli asset tradizionalmente più prudenti: obbligazioni e titoli di stato.

Dopo mesi di cali praticamente ininterrotti sono molti i risparmiatori che vogliono porre fine alle proprie sofferenze finanziarie.

Ecco che il nostro caro BTP dopo tanti anni di rendimenti magri torna a essere un’alternativa interessante dove ripararsi dall’incertezza grazie a un rendimento e scadenza certi.

È giunto il momento di investire in BTP?

2022: anno nero per obbligazioni e titoli di stato

Il 2022 è stato un anno eccezionalmente negativo per gli investimenti obbligazionari.
L’indice global aggregate (che racchiude l’obbligazionario globale governativo e societario) è crollato di oltre il 20% polverizzando in pochi mesi anni di performance:

Fonte a cura dell’autore: Bloomberg

In casa nostra le cose non sono andate certo meglio. Un Btp con vita residua di 10 anni è arrivato a perdere il 30%:

Il 2022 sarà ricordato come l’annus horribilis per obbligazioni o titoli di stato. Oppure come l’anno che ha offerto un’opportunità unica.

BTP: Il rendimento diventa davvero interessante

La vistosa discesa dei prezzi delle obbligazioni e dei titoli di stato ha determinato un altrettanto vistoso aumento dei rendimenti. (Vedi anche: Ci sono decenni in cui non accade nulla e settimane in cui succede tutto.”)

Ecco quindi che dopo anni di rendimenti decisamente magri, i tassi sui nostri sicuri titoli di stato tornano davvero generosi: il btp decennale oggi offre un rendimento di circa il 4% annuo.
La risalita dei rendimenti ha attratto l’attenzione di chi ancora non sa come allocare i propri risparmi. Ma, soprattutto, l’interesse giunge da tutti quei risparmiatori che sono rimasti così delusi dalle performance dei propri portafogli: un BTP al 4% annuo consentirebbe di recuperare in poco più di 2 anni la perdita del 10% di un tradizionale portafoglio bilanciato avviato all’inizio dell’anno.

La scelta avrebbe senso: cambiare il rendimento incerto di un portafoglio diversificato per la certezza e la tranquillità di un BTP nostrano.

Del resto cosa mai potrebbe accadere con rendimenti a questi livelli?

La linea di demarcazione tracciata dalle CACs

È opinione piuttosto diffusa che gli stati non posano fallire. Almeno quelli relativamente affidabili.

Prendendo per valido questo assunto almeno per il paese in cui viviamo, è bene conoscere le conseguenze dell’introduzione delle CACs.

Le clausole di azione collettiva (appunto le CACs) sono entrate in vigore nel gennaio del 2013 e consentono agli stati in difficoltà finanziaria la facoltà di modificare le condizioni dei propri titoli.
In altre parole il governo di un paese europeo ha facoltà di modificare:

  • La data di scadenza: posticipandone il rimborso,
  • Il tasso di interesse: riducendo o azzerando il rendimento,
  • Il valore nominale: riducendo il valore di rimborso,
  • La valuta di denominazione: nel nostro caso ridenominando i titoli esistenti da euro a lire.

Per poter apportare questo tipo di modifiche è necessario raccogliere il consenso di un’ampia maggioranza di investitori (soggetti che complessivamente detengono almeno il 75% del totale dei titoli oggetto di potenziale rinegoziazione).

E chi mai potrebbe accettare un simile scempio?

Il punto è che non accettare una simile proposta, per quanto penalizzante, porterebbe a conseguenze ancora più dannose. Uno stato in disseto che non riesce a rinegoziare i termini del proprio debito pubblico (titoli di stato) andrebbe in tutta probabilità incontro a un default disordinato con effetti devastanti per i risparmiatori.

Sicuramente per uno stato dell’unione europea far valere le CACs è una decisione estrema che ne comprometterebbe irrimediabilmente la credibilità.

Tuttavia per quanto improbabile, questa eventualità non è impossibile.

Questo significa che investire in titoli di stato implica comunque un rischio, seppur remoto, di incorrere in una perdita più o meno rilevante.

Investire (correttamente) nei mercati finanziari implica il rischio di subire oscillazioni al ribasso più o meno violente. Eventualità, questa, tanto fastidiosa quanto frequente. Si tratta comunque di un rischio che può essere efficacemente gestito con una corretta diversificazione e l’impostazione di un corretto orizzonte temporale.
Investire in titoli di stato con scadenza e rendimento certo ci consente di ignorare le oscillazioni ma ci espone al rischio di ristrutturazione (con o senza CACs). Un’ipotesi molto improbabile ma che non può essere gestita.

CACs e default: il rischio più grande

Nessuno si augura o ritiene probabile un default dell’Italia né, tantomeno, il suo potenziale ricorso alle CACs.
È bene focalizzarsi su un altro aspetto del rischio “emittente” (legato cioè alla solvibilità dello stato/società che ha emesso l’azione o l’obbligazione in cui andiamo a investire) che ha più natura comportamentale.
Questo rischio ha a che fare col modo in cui potremo reagire nel momento in cui dovessero aumentare i rischi e le probabilità di attivazione delle CACs.

La crisi del debito sovrano in Europa nel 2011 ci ricorda che gli eventi possono precipitare in modo totalmente improvviso e inaspettato.

Dalla notizia della falsificazione dei bilanci pubblici ellenici si passò al default della Grecia. In poco tempo i mercati iniziarono a porre in dubbio anche l’affidabilità finanziaria del nostro paese avviando una massiccia svendita di BTP che portò il decennale italiano a crollare di oltre il 20% (lo spread schizzò a 500 punti):

Mentre le banche italiche iniziavano a predisporre piani di emergenza in vista di una possibile ristrutturazione del nostro debito pubblico la stampa specialistica usciva con titoli come questo:

Fonte a cura dell’autore

La nomina del nuovo governo tecnico e il varo di una serie di riforme lacrime e sangue riportarono la situazione sotto controllo senza danni per i capitali investiti in titoli di stato.

Oggi è facile credere nel rimborso del nostro bel BTP ma se le cose dovessero ancora cambiare in modo improvviso come è già accaduto, come reagirebbe un comune investitore a una situazione del genere?

Sarebbe in grado di attendere fiducioso la scadenza o fuggirebbe dai BTP consolidando le perdite?

 Tassi & inflazione: e se il futuro fosse diverso dal recente passato?

Un rendimento al 4% su una scadenza di 10 anni oggi ci sembra decisamente interessante. Questo è quanto offre il BTP decennale alla data di stesura di questo articolo (a questo link i rendimenti in tempo reale).

Dopo 10 anni di rendimenti prossimi allo zero siamo comprensibilmente attratti dal coupon offerto da un titolo di stato.

Purtroppo non ci è dato sapere come si muoveranno i tassi e l’inflazione nei prossimi anni. Il 4% che oggi ci piace così tanto in futuro potrebbe rivelarsi un rendimento inadeguato rispetto all’inflazione di periodo.

Oggi sembra naturale che la fiammata inflattiva che ci sta colpendo sia destinata a riassorbirsi in tempi relativamente brevi.

Questo è sicuramente probabile ma non possiamo esserne certi.

 Se disgraziatamente fossimo soltanto all’inizio di un periodo caratterizzato da un livello di inflazione stabilmente più alto rispetto a quello degli ultimi 40 anni, la nostra prospettiva cambierebbe drasticamente.

Visto che molti addetti ai lavori confrontano l’attuale livello di inflazione con quello degli anni ’70, proviamo a verificare cosa è accaduto in quel periodo a un portafoglio bilanciato e a un più sicuro investimento in titoli di stato.

Nel 1970 il rendimento dei titoli di stato statunitensi balzò all’8% dopo essere stato a lungo sotto la soglia del 4%:

Fonte: FED St. Louis

Mentre i rendimenti salivano la borsa americana (S&P500) scendeva di oltre il 30% (ecco un’altra analogia con la situazione attuale).

Non è difficile immaginare come molti investitori in quel periodo abbiano deciso di dirottare i propri risparmi dal rischioso investimento azionario a un più sicuro titolo di stato all’8%.

Le cose andarono diversamente rispetto a quanto ipotizzato

Questi sono i rendimenti al netto dell’inflazione di un portafoglio diversificato (45% azioni – 45% titoli di stato – 10% oro in rosso) e un portafoglio integralmente investito in titoli di stato decennali (in blu).

Nonostante le evidenti turbolenze del breve periodo il portafoglio diversificato fu in grado di battere l’inflazione, il titolo di stato no. Sarà diverso oggi?

Conclusioni

Il successo negli investimenti ha un prezzo. Non in dollari e centesimi, però.
Il prezzo è la volatilità, la paura, il dubbio, l’incertezza è il rimpianto.  Tutte cose facili da sottovalutare finché non ce le troviamo davanti. Se non ci rendiamo conto che l’investimento ha un prezzo, saremo forse indotti a tentare di ottenerlo gratis. Un’ impresa che come il furto nei negozi, raramente va a finire bene.

(Morgan Housel)

Molti investitori e consulenti sono sfiniti da un anno ininterrotto di ribassi che ha colpito, talvolta duramente, anche i portafogli più diversificati.

Oggi la certezza offerta dal rendimento dei titoli di stato ci sembra un’opportunità unica per ritrovare la sicurezza e recuperare le perdite accumulate.

Il titolo di stato è un’alternativa legittima che, tuttavia, non elimina i rischi ma li rende soltanto meno percepibili.

Inoltre dobbiamo riconoscere che non siamo in grado di prevedere quale sarà la traiettoria futura dei tassi di interesse e dell’inflazione.

Diversificare opportunamente il proprio capitale è l’unica strategia efficace per affrontare l’incertezza.
Certo destinare una parte marginale dei propri risparmi all’investimento diretto in titoli di stato può avere un senso ma credere di poter sostituire integralmente fondi obbligazionari con BTP è quantomeno imprudente. Significa cambiare un rischio gestibile (con un corretto orizzonte temporale) per un rischio ingestibile (quello di un’improbabile ma non impossibile ristrutturazione del debito).

A cura di:

David Volpe

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