Come uccidere la moglie e vivere felice. Il caso Alberto Olivo di Luca Steffenoni

L’incredibile vicenda giudiziaria dell’uxoricida Alberto Olivo e il conseguente “processo più pazzo del secolo”.

Ci sono delitti che passano alla storia per la loro efferatezza, altri per i dubbi processuali che li accompagnano, altri ancora per il verificarsi di eccezionali casi fortuiti o per la stravaganza nell’agire del colpevole.

Il caso della primavera del 1903, che ha reso celebre il milanese Alberto Olivo, racchiude in sé, con modalità che si possono ben definire incredibili, tutte queste caratteristiche.

La vicenda inizia a qualche centinaio di chilometri di distanza dalla sua abitazione nel capoluogo lombardo, precisamente nel porto di Genova.

Qui il 24 maggio, in mezzo agli sbuffi dei transatlantici, fu avvistata una valigia galleggiante con un macabro contenuto: un corpo di donna d’età compresa tra i trenta e i quarant’anni, fatto a pezzi, con il cranio deturpato nel presumibile tentativo di renderlo irriconoscibile e con delle tavolette di naftalina inserite negli orifizi, per limitarne la decomposizione e l’inevitabile olezzo.

Un omicidio così crudele e anomalo, da suscitare tanti interrogativi e perfino un certo sdegno nella smaliziata polizia portuale.

Tra i moli prospicienti la famosa Lanterna, un simile trattamento non si era mai visto. Quasi quotidianamente venivano pescati manichini gonfi d’acqua salmastra, vittime di risse notturne, di regolamenti di conti, di ubriacature letali, di affari risolti a coltellate, eppure tanta ferocia, su una donna per giunta, era una novità a suo modo sconvolgente.

Il porto di Genova nel 1903

L’impegno degli investigatori fu dunque massimo. In pochi giorni sfilarono negli uffici di polizia tutti gli informatori, i protettori, i ricettatori, le tenutarie di case chiuse e i capi quartiere che si contendevano i mercati del contrabbando marittimo, per giurare che quel bauletto in fibra compressa, modello Paris, prodotto da una fabbrica del varesotto e venduto in tutta Italia, non fosse cosa loro. Per un mese sul tavolo degli inquirenti si accumularono testimonianze, lettere anonime, referti anatomo-patologici, ricerche merceologiche sull’improvvisata bara, rapporti sul ritrovamento, senza che nulla portasse a dare un nome a quei miseri resti.

Poi, finalmente, una flebile traccia. Un pescatore di poche parole si presentò di malavoglia ai carabinieri per raccontare di un ometto di bassa statura vestito di scuro, sicuramente un forestiero a giudicare dall’accento, che aveva insistito per fare un giro in barca e aveva voluto portarsi appresso una grossa valigia, sistemata alla bene meglio a poppa. Sfortunatamente, per distrazione o ingenuità, nello sbracciarsi a salutare i passeggeri di un piroscafo, lo strano turista aveva colpito il carico, facendolo cadere in acqua. La cosa curiosa era che avesse ritenuto superfluo il suo recupero, preferendo lasciarlo a mollo.

Gli inquirenti non daranno grande importanza alla testimonianza, preferendo seguire un’altra pista. Era loro convinzione che l’abilità nell’amputare un cadavere in quella cruenta maniera necessitasse di un sangue freddo e di una perizia tipici della scienza medico chirurgica. È dunque nel mondo delle cliniche e degli ospedali genovesi che si concentra la ricerca, senza tuttavia fare grandi passi avanti.

Il cadavere in valigia nella ricostruzione del criminologo, restauratore, antropomorfista Roberto Paparella

Mentre le indagini proseguono arriva l’estate e i primi bagni al mare. Chi se lo può permettere frequenta gli hotel della Riviera o passa mesi nelle lussuose residenze affacciate sul mare, ma c’è anche chi si accontenta di un fugace viaggetto dalla città. Tra questi, un certo Gervaso Severgnini, questurino milanese frequentatore della spiaggia di Boccadasse.

Per deformazione professionale e semplice curiosità l’uomo, tra un tuffo e l’altro, non poteva esimersi dall’ascoltare le considerazioni degli altri bagnanti sul misterioso delitto, nonché leggere le cronache che Il Secolo XIX dedicava quotidianamente alla soluzione del caso “della donna in valigia”. Con intraprendenza lombarda volle vederci più chiaro e rintracciò il famoso pescatore, per avere una versione diretta dei fatti.

Tornò a Milano con la descrizione di un uomo brevilineo, magro, con il baffo ispido come ce n’erano tanti, ma con la convinzione che il suo accento venisse proprio dal capoluogo lombardo. L’idea alla quale la sua mente lavorava era che un cittadino lombardo si fosse recato in vacanza in compagnia di una donna, magari all’insaputa della moglie, e che la romantica gita si fosse trasformata in tragedia. «Mai avrei immaginato la verità», confesserà qualche mese più tardi a dei cronisti forse più sbigottiti di lui.

Il Severgnini provò a spiegare le proprie teorie al suo superiore, senza ricevere l’incoraggiamento sperato. Genova era lontana, sia geograficamente che sotto il profilo amministrativo, perché impicciarsi di affari che i colleghi liguri sarebbero sicuramente stati in grado di sbrogliare da soli?

Più fortuna l’ebbe con il giudice istruttore Antonio Raimondi che, convinto dall’insistente poliziotto, si fece affidare dalla Procura ligure un ramo milanese dell’inchiesta, incaricando il solerte agente della parte operativa delle indagini.

Il lavoro, che si preannunciava piuttosto complesso, doveva iniziare dai dati sugli scomparsi in città. Senza un ufficio anagrafe moderno era come cercare il classico ago nel pagliaio.

All’apparenza non c’erano donne di quella età compatibili con i dati anatomo-patologici repertati, che mancassero all’appello. Tante ragazze più giovani scappate di casa finite in giri di malavita, donne senza fissa dimora, diversi cadaveri dimenticati negli ospedali cittadini, ma nessuna tra i trenta e i quaranta.

L’impasse si risolse quando sul tavolo del magistrato fu recapitata una lettera anonima, nella quale si riportava la notizia dell’assenza di una certa Ernestina Beccaro, coniugata Olivo, dalla sua casa di via Macello (oggi via Modestino).

Via Modestino

In effetti, la donna si era assentata senza un perché, mentre il marito, tale Alberto Olivo, un quarantottenne che svolgeva la professione di contabile presso la società Richard Ginori, non sembrava preoccuparsene molto. La versione dell’uomo fornita alla portiera dello stabile, fortemente sospettata di essere l’autrice della lettera anonima, era che la moglie, contadina del biellese, in seguito ad una delle frequenti liti, l’aveva abbandonato per tornare dalla mamma, come nella più classica delle commedie all’italiana. Un rapido controllo bastò a verificare che gli ignari genitori non la vedevano da anni e da lei ricevevano solo saltuarie lettere e cartoline.

Le missive si rivelarono più utili al poliziotto che, confrontandone la grafia con quella dell’Olivo, si rese subito conto che provenivano dalla stessa mano e che l’ultima, nella quale la signora comunicava la sua felicità coniugale, era partita il 23 maggio proprio dalla stazione di Genova. Singolare coincidenza.

Solo un tassello mancava all’incriminazione: la personalità del sospetto non corrispondeva in nulla a quella di qualsiasi altro uxoricida.

Dagli interrogatori informali ai vicini, ai colleghi, agli abitanti del quartiere emergeva il quadro di un uomo assolutamente integerrimo.

Alberto Olivo

L’identikit del cittadino modello partiva da Udine, città d’origine dell’indagato dove, negli archivi scolastici, era conservata copia di un curriculum pieno di encomi e di ottimi voti. Solo la mancanza di fondi per proseguire gli studi gli aveva impedito di aspirare all’insegnamento, come aveva più volte confessato ad amici e parenti. Trentasei mesi di servizio nel genio civile con un giudizio d’uscita che recitava: «Ottimo militare, disciplinato, incline allo studio, molto portato alla matematica. Conosce perfettamente tre lingue. È rispettoso verso i superiori e cameratesco con i pari grado».

I colleghi della Richard Ginori aggiungevano altri meriti, considerandolo un soggetto un po’ solitario e a tratti sfuggente, ma serissimo e di un rigore quasi maniacale nel lavoro, capace di passare giorni alla scrivania per risolvere l’ammanco di qualche misera monetina.

Fermare un simile campione sulla base di indizi tanto labili poteva risultare un grave errore. Se il pubblico ministero non avesse voluto convalidare l’arresto, tutto si sarebbe risolto con un gran buco nell’acqua.

Non restava che un duro interrogatorio in Questura sperando che emergesse qualche contraddizione o qualche nervosismo che desse un appiglio all’azione dei giudici.

E qui avvenne l’imprevisto. Olivo non tentò neanche per un attimo di negare. Certo che l’aveva ammazzata lui. Bastava chiedere. Aveva anche appuntato ogni cosa su di un libretto, per non dimenticarsi qualche passaggio. Volentieri l’avrebbe consegnato al signor magistrato, insieme ad alcune poesie sulla patria, sulla giustizia e sui buoni sentimenti, delle quali andava molto fiero.

La questione era assai semplice: aveva sposato una Santippe il cui unico scopo nella vita era di intossicare quella del coniuge. La fragile e premurosa donna conosciuta in una trattoria di via Solari si era trasformata, a suo dire, in un granatiere dispotico e arrogante. Ma il vero motivo delle frequenti liti erano i soldi. La moglie aveva richieste che attentavano allo stipendio di 120 lire mensili. Ernestina aveva avuto perfino la sfrontatezza di pretendere lezioni d’italiano da un insegnante privato, quando l’erudito ce l’aveva già in casa bello e pronto.

Davanti al giudice l’Olivo è un fiume in piena e il suo principale interesse appare non quello di discolparsi, ma di essere riconosciuto come gran letterato. Declama versi, parla in francese, in latino, alterna odi a poesie. A fatica viene riportato alla descrizione dei fatti.

«Il 20 maggio avevo un forte mal di testa, chiedo alla Tina, perché così la chiamavo, di farmi uno sgroppin, che poi sarebbe una limonata fatta con le scorzette, e quella mi risponde che me lo posso fare da solo lo sgroppin. Dopo non so mica cos’è successo. Ricordo che avevo il coltello in mano e la Tina era già a letto, ma non dormiva. Quando mi vede entrare nella stanza salta su che sembra una pazza. E mi viene addosso … altro non so. Poi, ho fatto le pulizie del pavimento giusto in tempo per andare a lavorare, perché nessuno possa mai dire che l’Olivo arriva in ritardo».

Per tre giorni il cadavere era rimasto in tinello, coperto dai sacchi del carbone, poi, inevitabilmente aveva dato i primi segnali di cedimento. E allora l’illuminazione: farlo a pezzi e portarlo lontano, il più distante possibile. L’idea di Genova era venuta proprio dall’Ernestina, che gli aveva sempre rimproverato di non portarla al mare. Il treno era sembrato il mezzo più idoneo, bisognava ancora cambiare ad Alessandria, ma in poche ore avrebbe potuto raggiungere il porto. Se non ci avessero pensato i pesci, chi mai l’avrebbe collegato al corpo in valigia?

C’era tuttavia un problema: la salma era ben lontana dal peso accettabile per un uomo della sua forza fisica. Bisognava alleggerirla. Un lavoro di fino per togliere tutte le interiora, parte della muscolatura e dei grassi, tritare il tutto e buttarlo nel water di casa che aveva retto egregiamente al sovraccarico di lavoro.

Il cadavere di Ernestina Beccaro

L’assassino guidò i carabinieri per un sopralluogo, insistendo su ogni dettaglio, perfino su quelli trascurati dai militi ai quali consegnò con fierezza l’arma del delitto, un affilato coltello con lama Krupp, utilizzato dai migliori macellai della città.

Con questi elementi il processo diventava solo un inutile rito caratterizzato dai tentativi della difesa per ottenere l’infermità mentale e per screditare la vittima, descritta come donna insensibile ai doveri coniugali, spendacciona, vendicativa. In quanto all’omicidio si cercò in tutti i modi di spostarlo da volontario a colposo, una sorta di accidente capitato durante la lite, senza che ci fosse volontà alcuna di uccidere.

L’Olivo, sempre disponibile ad ogni chiarimento e ad ogni domanda rituale, s’inalberò una sola volta, per la precisione quando antropologo Cesare Lombroso, chiamato a dare un’opinione sulla salute mentale dell’imputato, definì “versacci” le sue opere creative. Per il resto, sfoggiava un canagliesco cinismo a suo modo simpatico che strappò più volte delle risate alla Corte. Quando la giuria popolare, composta secondo la procedura penale del tempo da dodici giudici non togati, si riunì in camera di Consiglio, fu enorme lo stupore nel vedere uscire il foglio con il verdetto in soli dieci minuti, ma ancora più incredibile risultò la sua lettura: assolto!

Com’era possibile? Il Corriere della Sera, il Secolo XIX, l’Illustrazione Italiana si scatenarono in articoli grondanti indignazione, chiedendo i più disparati lumi agli esperti forensi. La tesi più accreditata fu che si fosse trattato di una sorta di errore tecnico, poiché il giudice aveva data per scontata la premeditazione e sulla base di questa aveva formulato un’incriminazione a senso unico, mentre i giurati avevano ritenuto che si trattasse di delitto preterintenzionale non previsto dalla secca domanda del magistrato.

Un titolo di giornale dell’epoca

La sostanza era solo una: Alberto Olivo stringeva la mano ad ogni giurato e si faceva accompagnare a casa dai gentili carabinieri. Lo scandalo per la sentenza muoveva, in realtà, un tema molto scottante, ovvero l’utilizzo o meno dei giurati popolari e come sempre avviene in Italia si trasformava in contesa ideologizzata dalle opposte tesi.

La magistratura, spalleggiata dalle forze conservatrici, premeva per avocare a sé ogni decisione, mentre una parte del mondo giuridico e politico di matrice socialista e zanardelliana, riteneva fosse importante che quelle sentenze scritte «in nome del popolo italiano» prevedessero, appunto, la partecipazione popolare. Screditare o applaudire la sentenza Olivo, poteva far pendere definitivamente la bilancia da una parte o dall’altra nella speranza di una veloce modifica del codice di procedura penale (modifica che arriverà a compimento solo nel 1913).

Dopo un verdetto della Cassazione che impugnava la sentenza per un vizio di forma e spostava il processo da Milano a Bergamo, Alberto Olivo tornò in aula, avversato da una pubblica opinione convinta che questa volta si sarebbe risolto il pasticcio procedurale facendo definitivamente giustizia.

In realtà il cambio di sede non sembrava ottenere i risultati sperati. Più si avvicinava la data della sentenza e più aumentavano le pressioni sui poveri giurati. Lettere anonime, minacce, aggressioni nei corridoi del tribunale, editoriali infuocati, tutto congiurava contro la serenità del giudizio.

Sui dodici cittadini chiamati a giudicare si addensavano le nere nubi della speculazione politica e degli interessi corporativi. L’unica cosa che fu chiara ai poveretti scelti per affiancare il giudice era che, comunque avessero deciso, avrebbero fatto torto a qualcuno. E così si vendicarono.

Quando il giudice dispiegò i bigliettini, nei quali ogni singolo giurato doveva annotare la propria decisione, non poté far altro che constatare come dieci di questi fossero stati lasciati in bianco e gli altri due fossero divisi equamente tra un colpevolista e un innocentista.

Pareggio, dunque, e poiché in tali casi valeva la regola della sentenza più favorevole all’imputato, l’epilogo non poteva che essere l’assoluzione definitiva.

Alberto Olivo, passato indenne dal più incredibile dei processi, tornò ai suoi conti negli uffici della nota ditta di ceramiche, alle sue composizioni poetiche e ai suoi studi. L’anno successivo pubblicò il suo memoriale che, nonostante le stroncature dei critici, che lo considerarono poco più che uno sgrammaticato e insulso sproloquio, ebbe un certo successo.

Per qualche strano meccanismo della mente femminile fu continuamente disturbato da donne che, nonostante continuasse a proclamarsi colpevole, spergiuravano in lettere piene d’amore sulla sua bontà d’animo. Alla fine, abdicò e sposò una delle tante spasimanti con la quale visse, non si sa se felice o meno, fino all’età di 86 anni.

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