Diario dalla Turchia di Leonida De Filippi

Sense of Art è un’associazione no profit fondata da artisti che si ripropone di essere di aiuto in vari progetti sociali nel mondo.

In un primo momento l’idea era quella di devolvere il ricavato della vendita delle opere d’arte realizzate a favore di iniziative meritevoli di un sostegno.

Nel tempo è mutato l’obiettivo e la definizione dell’impegno.

La ricerca dell’idea pura dell’arte come momento che genera benessere collettivo. A quel punto non fermarsi ad un clichè artistico tradizionale ma impegnarsi, sul campo, in prima persona. L’emergenza diventa la tavolozza, la presenza dell’artista sono i colori, gli aiuti che si riescono a portare sono il pennello.

Come ci racconta Leonida De Filippi: “Io sono un artista, insegno a Brera e nel 2008 quando abbiamo fondato l’associazione ritenemmo fosse il nome più adatto, il senso dell’arte, appunto. Un nuovo senso dell’arte più puro e meno legato al mercanteggiare, che possa tornare a un’idea di azione purificata, occupandosi come nel nostro caso dell’altro.”

Diario dalla Turchia di Leonida De Filippi

Febbraio 2023 – Turchia – Provincia di Hatay

 

Giovedì 16 febbraio

 

Arriviamo all’aeroporto di Istanbul, il nostro scalo per poi arrivare ad Adana grande città turca molto vicina alla Siria, quella Siria che naviga sempre nel mio cuore da quando è scoppiata la guerra come conseguenza della primavera araba.

Effettivamente di Adana non ne conoscevo nemmeno l’esistenza nell’imperante ignoranza del limitato viaggiatore.

Aeroporto di Milano, partenza

Faruk ci aspetta all’aeroporto, è di Konia. È un contatto di una caro amico italiano, recuperiamo il furgone che abbiamo affittato e ci lanciamo in una notte piena di dubbi verso Antiochia.

Sono appena tornato dal confine moldavo per aiutare duecentocinquanta bambini ucraini rifugiati di guerra, un’altra maledetta guerra. Le notizie dei media sul terremoto in Turchia pervadono i miei spazi, chiamo Filippo l’amico filmmaker, Partiamo? Si partiamo!

Mi catapulto in una veloce ed efficace raccolta fondi, per fortuna esistono ancora delle sensibilità attive, e mi ritrovo in aeroporto, un’altra volta mi dico, ma questa è la realtà, la realtà che più mi si addice.

Nell’aiutare l’altro ti ritrovi in una meta dimensione quasi extra terrena, i canoni cambiano, cambiano le proiezioni delle priorità.

Campo aiuti MSYD, ONG turca, Antiochia

Nella penombra maledetta di una notte comincio ad intravedere la distruzione, siamo quasi ad Antiochia, case crollate, fuochi improvvisati, tende posticce. Arriviamo al campo della Ong a cui ci appoggiamo, la notte è molto fredda, si dorme in macchina come tutti, motore acceso e sacco a pelo.

La neve spolvera le alture circostanti e penso a quei poveri disgraziati che non hanno più una casa, un letto e mi ritengo fortunato. La felicità è dentro di noi basta saperla cercare.

Venerdì 17 febbraio

Campo aiuti MSYD, ONG turca

Amid accende la stufa/cucina del campo costituita da un bidone dell’olio, facciamo colazione con chai (il the turco) a litri e formaggio.

I ragazzi del campo ci accolgono con stranezza, arriviamo dall’Italia per aiutare il popolo turco, sono increduli.

Antiochia

Oggi ad Antiochia il silenzio era mortale. 

Un silente silenzio di morte, ottuso, come la nostra non curanza verso la madre terra, è brutto dirlo ora ma ogni tanto fa sentire la sua potenza.

La potenza di quel silenzio è silurante. Si odono solo i rumori delle ruspe che spostano macerie incessantemente, scavano, ma oramai nessuna vita è possibile sono passati troppi giorni.

Turchi di origine araba, Periferia di Antiochia.

Qui si parla di cinquantamila morti, le case sono esplose sotto la potenza della terra.

Militari in assetto di guerra, controllano tutto e tutti mitragliatori alla mano, cercano gli sciacalli che neanche davanti alle tragedie hanno la forza di fermarsi. Polizia di ogni genere, protezione civile, associazioni locali, tende, ruspe, camion, blindati dell’esercito e polvere, tanta polvere.

La polvere del mondo. 

Ma il silenzio della morte è incredibile, ho vissuto le stesse sensazioni ad Amatrice.

Il tempo si ferma, si è fermato.

Una città da duecentomila di abitanti non esiste più, rimangono macerie e quadri appesi alle pareti sventrate di case oramai traballanti. Ansimi, ti manca il respiro e quel poco che ti rimane è soffocato dalla polvere.

Pezzi di vita, case rotte, ferri serpenti, il mondo umano non esiste più. I solchi della terra tracciano un nuovo mondo. 

Sabato 18 febbraio 

Duecentomila persone se ne sono andate. La città è blindata, riusciamo ad entrare grazie a Faruk il nostro referente. Fa parte di un’associazione governativa molto efficiente.

Un poliziotto ci ferma, infastidito ci chiede dove andiamo, siamo qui per portare aiuti spiega il nostro referente, vengono dall’Italia, il poliziotto accenna un sorriso e ci lascia passare.

La terra trema sotto la potenza delle ruspe, dei camion, dei blindati dell’esercito, nel cielo squadriglie di elicotteri militari che fanno spola incessantemente con gli aeroporti. 

Case sventrate, macerie, ovunque; vite annullate, sepolte. 

Siamo al campo come tutte le notti, davanti al fuoco Mohamed l’eroe dei volontari turchi ci fa vedere le immagini della sua casa distrutta. “Vedi la mia macchina è sommersa di detriti”. “Questo è Amin”, ci fa vedere la sua foto, “un mio caro amico, non c’è più”. Mohamed ha salvato tre vite sotto le macerie di cinque piani implosi, è considerato un eroe, lo è.

Lo chef del campo ci saluta: ”Tutto ok?”, si tutto ok grazie, niente era ok, non era ok proprio un cazzo!

Antiochia

La malinconia ma più di tutto lo stupore per quello che abbiamo visto è sui volti di tuti, uno dei volontari accenna bella ciao in curdo, è un motivo per farci sentire a casa.

Domenica 19/20 febbraio 

Da Antochia ci dirigiamo verso il villaggio di Yayladagi, molto vicino al confine siriano.

Qui per fortuna il terremoto si è fatto solo sentire, non ha fatto danni, molti abitanti di Antiochia ora vivono qui.

Rifugiati di guerra siriani. Villaggio di Yayladagi.

Rifugiati di guerra siriani. Villaggio di Yayladagi.

Svaligiamo il solito supermercato, carrelli su carrelli di generi alimentari, prodotti per l’igiene e soprattutto assorbenti.

Dieci famiglie vivono sotto lo stesso tetto, sono siriani, profughi di guerra che il terremoto non ha risparmiato, famiglie disastrate, orfani e tanti tanti bambini. Sembra di essere nel Marocco rurale, anzi è peggio. Il cuore stringe, stringe forte, vorresti fare di più molto di più, ma ti sembra di essere impotente.

Mohamed ha perso quattro figli sotto le macerie del maledetto Earthquake, è disperato.

Una preghiera è per loro, il mullah recita il corano e poi silenzio solo silenzio.

Cerchiamo di entrare in Siria effettivamente siamo lontani pochi chilometri, il responsabile religioso del villaggio di Yayladagi fa una telefonata, siamo due macchine a pochi metri dal border, sulla destra una macchina crivellata di colpi di mitraglia, li vicino c’è un campo profughi e vorrei portare aiuti, ma di colpo la prima auto ci fa cenno di scappare, voltiamo velocemente e acceleriamo a più non posso.

Non era il momento giusto.

Border siriano.

La notte è giorno, il giorno non ha più confini, il tempo si è spezzato, corriamo a più non posso i giorni sono pochi e bisogna aiutare, vorrei avere altre braccia; telefonate, supermercati, volti, disperazione, l’arteria principale è un’autostrada di aiuti, camion su camion, ambulanze, container; la sera si alza la nebbia, una nebbia di fuochi, non c’è gas, non c’è acqua, gli ospedali sono crollati.

Penso e ripenso ma ho un’unica volontà, tornare presto. 

Storie di vita.

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