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Nella supply chain mondiale il ruolo della Cina è enorme, soprattutto per le sue dimensioni economiche. Il Covid e, in misura maggiore, le tensioni geopolitiche stanno mettendo sempre più in discussione la globalizzazione e il ruolo del Dragone rischia di essere largamente inferiore rispetto al passato. L’amministrazione Trump non solo ha parlato con sempre più vigore di “reshoring”, ma ha cavalcato le preoccupazioni e la necessità di ripensare al modello di supply chain per attaccare l’Impero di mezzo. Addirittura sono state invitate alcune nazioni asiatiche vicine agli Usa a stringere un’alleanza per aiutarli a produrre beni essenziali che escludano la Repubblica Popolare
Con il termine supply chain si definisce il processo di produzione e distribuzione di prodotti o servizi che comprende tutte le fasi che vanno dal reperimento della materia prima alla vendita e alla consegna all’utente finale. Le supply chain sono diventate sempre più globali e interconnesse. Lo scoppio della pandemia, gli effetti del lockdown e i cambiamenti dei comportamenti dei consumatori hanno avuto un forte impatto su questa catena e imposto una serie di riflessioni sulla necessità di ripensarne la strutturazione. Lo shock sul lato dell’offerta, provocato dal Covid, ha generato un effetto frusta sulla supply chain che si è trasmesso con forza e intensità crescente sino a provocare una scossa non irrilevante sulla domanda.
È emerso che la forte concentrazione o la dipendenza da alcune fonti di approvvigionamento e la distanza che separa alcuni soggetti della filiera rispetto ad altri costituiscono un impedimento a una risposta efficace del sistema produttivo e dei servizi connessi dinnanzi a un evento come la diffusione globale del virus. Si sono infatti palesati veri e propri rischi sistemici, causati dalla presenza di produttori di componenti che ricoprono un ruolo determinante nel funzionamento della catena di approvvigionamento e che a livello internazionale si concentrano in Cina, Corea e Giappone.
Inoltre, non va dimenticato che la distanza fisica tra soggetti appartenenti alla stessa filiera è diventata un problema nei blocchi avvenuti, sia nella produzione, sia nella distribuzione dei prodotti. Infine vanno aggiunte le difficoltà che l’e-commerce ha dovuto affrontare con il crescente aumento della domanda proveniente dai consumatori.
Gli effetti del Covid-19
Da un sondaggio dell’Institute for supply management (Ism), pubblicato lo scorso luglio, che ha visto la partecipazione di 676 manager e direttori d’azienda coinvolti nella gestione e produzione della catena di approvvigionamento degli Stati Uniti, emerge che l’interruzione della supply chain ha ancora un impatto sulla maggior parte di settori industriali. Nello specifico, il 97% degli intervistati afferma di avere o che subirà effetti causati dagli stop della catena di approvvigionamento. Gravi interruzioni vengono segnalate negli Stati Uniti, in Messico, Canada, Giappone, Corea del Sud, parti dell’Europa e, “in particolare”, in Cina. Il lead time medio, ovvero il tempo che intercorre tra l’ordinazione di un prodotto e la sua consegna, è migliorato, ma è ancora in ritardo rispetto alle operazioni pre-Covid e il 77% afferma che ci vuole più tempo per ottenere prodotti dalle aziende cinesi. La maggior parte delle società (56%) non sta prendendo in considerazione il reshoring o il nearshoring, mentre il 20% delle imprese sta pianificando o ha iniziato a effettuare reshore o nearshore di alcune attività.
Ripensare il modello
Prima della pandemia i temi in discussione nell’ambito del supply management riguardavano soprattutto la guerra commerciale, che si declinava in misure e ritorsioni nei confronti di alcuni paesi, con al centro la disputa tra Usa e Cina. Il Covid, oltre ad aggravare la situazione, ha fatto emergere una serie di fenomeni latenti già presenti sui mercati: il crescente nazionalismo e il protezionismo. Gli inviti a rilocare attività all’estero sul proprio territorio o su quelli limitrofi sono diventati sempre più numerosi, con gli Usa in testa e in continuità con lo scontro commerciale nei confronti della Cina. L’amministrazione Trump non solo ha parlato con sempre più vigore di “reshoring”, come già aveva fatto all’inizio del suo mandato, ma ha cavalcato le preoccupazioni e la necessità di ripensare il modello di supply chain per attaccare ancora una volta l’Impero di mezzo. Addirittura sono state invitate alcune nazioni asiatiche vicine agli Usa a stringere un’alleanza per aiutarli a produrre beni essenziali che escludessero la Cina.
Quali sarebbero i benefici? In un’analisi fatta da PwC si stima che i produttori statunitensi potrebbero ridurre i costi operativi in media del 23% spostando la produzione dalla Cina al Messico e del 24% se ciò avvenisse verso un altro paese asiatico a basso costo (Low cost counry-Lcc). Gli scenari di doppio approvvigionamento (ad esempio, Cina + Messico o Asia Lcc+ Messico) potrebbero generare un risparmio del 5-20% rispetto a quello legato alla Cina o alla produzione solo in Cina. Per le aziende statunitensi l’abbassamento dei costi era stato la motivazione principale dell’offshoring e la Cina era diventata per loro un “single-sourcing country”, grazie ai vantaggi che poteva offrire. Ora sono allo studio vie di approvvigionamento alternative, con l’obiettivo di ridurre i costi e rendere più resiliente la filiera. Sempre secondo PwC, il 16% delle aziende americane operative nella Repubblica Popolare stava già pensando di apportare cambiamenti al modello di business, compreso lo spostamento della produzione e/o l’approvvigionamento al di fuori del paese.
Il ruolo della Cina
Ma è davvero dominante il ruolo della Cina nella supply chain globale? A questo proposito è interessante il parere di Tao Wang, head of Asia economics and chief China economist presso Ubs Investment Bank, che definisce la posizione del colosso asiatico nella global supply chain come molto importante, ma non dominante. La motivazione va ricercata nel fatto che, poiché il Dragone è il più grande paese esportatore al mondo (13-14% sul totale) è quello che ha un peso maggiore nella catena d’approvvigionamento, che si misura di fatto con le esportazioni. I settori con una più elevata percentuale di export sono l’abbigliamento, il calzaturiero, l’elettronica di consumo (Pc e smartphone) e alcuni comparti del farmaceutico.
Non va poi dimenticato che la Cina importa anche beni intermedi ed è l’assemblatore finale di componenti prodotti fuori dal paese. Se questa economia ha una tale importanza, rimarca l’economista, è per le sue dimensioni: economiche e demografiche. E quest’ultimo è un aspetto che, ancora oggi, quando si parla di questa nazione, non viene mai preso in debita considerazione. Un vasto territorio, con la più numerosa popolazione mondiale, un bacino di una forza lavoro sempre più qualificata e un tessuto manifatturiero interconnesso hanno portato l’economia cinese alle attuali dimensioni. Negli ultimi decenni il paese ha saputo crescere attraverso la stabilità politica, i piani di riforme, l’apertura del mercato, la realizzazione di infrastrutture che, oltre a rafforzare l’attività locale, hanno attratto investimenti esteri. I cambiamenti all’interno della global supply chain erano comunque già presenti sul mercato e la pandemia li ha fatti emergere con maggiore forza.
Nel 2018 Tao Wang aveva già iniziato a condurre alcuni sondaggi sull’argomento, tramite una serie di interviste ai direttori finanziari di aziende esportatrici della Cina, del Nord dell’Asia (Giappone, Corea del sud e Taiwan) e americane presenti in Cina. I dati più recenti a disposizione rivelano che il 60% delle società esportatrici cinesi, l’85% di quelle nord-asiatiche e l’85% di quelle americane stanno pensando di spostare in media il 30% della loro produzione fuori dal paese. L’aumento dei costi della terra, del lavoro e di quelli legati all’ambiente sono le motivazioni di fondo che hanno portato le imprese a muoversi in questa direzione, con un’accelerazione ascrivibile, sia all’introduzione dei dazi, sia alla diffusione del virus. Infatti, secondo l’economista, il Covid ha avuto sì forti impatti sulla supply chain sollevando temi legati alla sicurezza nazionale, al cambiamento delle abitudini dei consumatori e alla stessa organizzazione della filiera, con ricadute a livello globale, ma è stato un evento che ha impresso forza a un mutamento già guidato dalle forze di mercato. Interrogata su quali settori potrebbero essere penalizzati nel caso che la Cina dovesse vedere il proprio ruolo diminuito all’interno della global supply chain, Tao Wang indica quelli a elevato impiego di mano d’opera, mentre quelli rivolti al mercato domestico ne trarrebbero vantaggio. Complessivamente, ne uscirebbe danneggiata tutta la Cina, perché ne verrebbe colpita la produttività e la crescita potenziale.
Le pressioni politiche
È all’interno di un fragile contesto economico che si devono leggere le reazioni dei vari governi, spesso ammantate dalla strumentalizzazione politica. Va letto in questo senso l’atteggiamento dell’amministrazione Usa che, da un lato attacca direttamente la Cina e, dall’altro, cerca di creare nuove alleanze con altri paesi, scompaginando le relazioni esistenti. Le pressioni americane per marginalizzare il paese hanno assunto diverse forme, ma con il fine esplicito di usare la forza degli Stati Uniti per punire la Cina, le cui reazioni hanno avuto però toni più moderati.
Le relazioni tra Cina e Giappone si sono complicate dopo lo scoppio della pandemia, con un aumento delle frizioni commerciali, cui si sono aggiunte la questione storica delle isole Senkaku, il controllo del Mare della Cina meridionale e le tensioni a Hong Kong. La decisione del governo Abe, all’interno del pacchetto di misure emergenziali per contrastare il Covid, di istituire un fondo di 2,2 miliardi di dollari per facilitare il rientro di aziende attualmente basate in Cina e di una quota aggiuntiva (circa 221 milioni di dollari) per coloro che lo faranno all’interno di alcuni paesi dell’area Asean, non costituisce nella sostanza una rottura con il maggiore partner commerciale, visto l’interesse che le stesse aziende nipponiche hanno di rispondere alle esigenze del mercato domestico cinese, ma si fa portatrice di un messaggio politico. Il fondo in questione ha comunque raccolto un forte interesse con circa 1.600 aziende che vi hanno aderito per richieste pari a 17 miliardi di dollari, in merito alle quali la decisione sarà presa a ottobre, anche se l’ammontare stanziato non risulta particolarmente significativo sul totale degli investimenti in Giappone (0,5%).
I dati recenti dell’export
Le esportazioni cinesi sono stati più resilienti del previsto negli ultimi mesi, aumentando del 3,5% su base annua da aprile ad agosto e del 9,5% su base annua a settembre. La quota cinese dell’export globale è salita dal 13,3% nel 2019 al 17,5% nel maggio 2020. Perché la Cina ha guadagnato quote di mercato persino negli Stati Uniti? I fattori chiave sono stati la domanda di equipaggiamenti protettivi e di forniture mediche per combattere il Covid-19. Bene anche i prodotti elettronici, vista l’accresciuta domanda per il lavoro e l’apprendimento da remoto, con un incremento del 23% anno su anno per le esportazioni legate all’elettronica come processori automatici di dati, telefoni cellulari, pannelli Lcd e circuiti integrati elettronici tra aprile e agosto.
Catene più resilienti
È indubbio che se la Cina dovesse essere meno integrata nella filiera globale, ci sarebbero conseguenze che peserebbero non solo sul paese, ma sulla crescita globale: vorrebbe dire che le aziende vedono opportunità in altri mercati e decidono di coglierle. È altresì difficile pensare che una “moral suasion” da parte di qualsiasi governo possa trovare terreno fertile, se non corroborata da valide motivazioni economiche. «Quando la pandemia di Covid-19 si placherà, il mondo avrà un aspetto decisamente diverso», sostiene Willy C. Shih, professore in Management practice e in Business administration, in un suo contributo pubblicato dalla Harvard Business review (“Global supply chains in a post pandemic world”). «I produttori di tutto il pianeta saranno sottoposti a maggiori pressioni politiche e competitive per incrementare la loro produzione domestica, aumentare l’occupazione nei loro paesi d’origine, diminuire o addirittura eliminare la loro dipendenza da fonti che sono percepite come rischiose e ripensare al loro utilizzo di strategie di produzione snella che implicano la riduzione al minimo della quantità di scorte detenute nelle loro catene di fornitura globali», rimarca sempre Shih. Quindi «la sfida per le aziende sarà rendere le loro catene di approvvigionamento più resilienti senza indebolire la loro competitività. Per affrontare questa sfida, i manager dovrebbero prima capire le loro vulnerabilità e poi prendere in considerazione una serie di passaggi, alcuni dei quali avrebbero dovuto intraprenderli molto prima che la pandemia colpisse».
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