Hong Kong, il dilemma di Xi e la partita con Taiwan – di Pinuccia Parini

Nel secondo trimestre di quest’anno l’economia di Hong Kong è cresciuta solo dello 0,5% anno su anno, con una contrazione del dato destagionalizzato dello 0,4% trimestre su trimestre.

Lo scontro commerciale tra Usa e Cina e le proteste che hanno invaso le strade della ex-colonia britannica hanno avuto conseguenze importanti sul tessuto economico della regione. Il clima nel mondo degli affari è peggiorato sensibilmente, soprattutto per l’aumento delle preoccupazioni legate alla congiuntura globale, che hanno portato a un rallentamento degli investimenti e delle esportazioni. Il governo, a giugno, ha approvato un piano di misure di stimolo di 19,1 miliardi di dollari Hong Kong, abbassando però la previsione di crescita per il 2019 nella fascia 0-1%, dal precedente 2-3%. È difficile infatti pensare che la situazioni migliori nel terzo trimestre, visti gli scarsi progressi sostanziali nelle trattative sino-americane e il protrarsi delle manifestazioni di piazza, che cominciano ad avere ripercussioni sul turismo, gli hotel e le vendite al dettaglio.

La governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, prima della pubblicazione dei dati del Pil, aveva dichiarato che le proteste avrebbero avuto un impatto sul tessuto economico pari a quello della Sars nel 2003. Da allora la situazione è andata acuendosi. Lo scorso agosto i dimostranti hanno causato la chiusura dell’aeroporto di Hong Kong, creando non pochi disagi al traffico aereo. C’è chi sostiene che dietro questi attacchi ci sia la longa manus di chi vorrebbe criminalizzare la protesta e sottrarre così consenso ai manifestanti, facendoli passare per facinorosi. Difficile avere una visione chiara di quanto è successo, ma è singolare che, subito dopo, sono circolati filmati di esercitazioni delle forze armate della Repubblica cinese alla frontiera di Shenzhen. Alle immagini dell’ammassamento dell’esercito di Pechino ha risposto una manifestazione di piazza domenica 19 agosto, con circa 1,7 milioni di partecipanti (secondo gli organizzatori) che hanno sfilato per le strade di Hong Kong per riunirsi a Victoria Park. 

Ma come potrebbe evolvere nel futuro la situazione? Un portavoce del governo di Hong Kong ha parlato di un inizio di dialogo sincero con i cittadini, che riparerà le fratture createsi e «ricostruirà l’armonia sociale quando tutto si sarà calmato». I manifestanti, invece, vorrebbero vedere una serie di atti tangibili che dimostrino l’indipendenza e la difesa della democrazia nella ex-colonia britannica, con una presa di distanza dalle continue interferenze di Pechino. È fondamentale quindi trovare un compromesso.

LA METAFORA DELLA ZUPPA

Come potranno Xi Jinping e il suo governo accettare tutte le richieste della piazza di Hong Kong? Cinque anni fa, durante un intervento a un evento dell’Unesco a Parigi, il leader cinese usò la seguente metafora per spiegare un concetto caro alla saggezza cinese: «L’armonia senza uniformità». Come è possibile preparare una zuppa densa senza il fuoco, l’aceto, la salsa, le prugne cui aggiungere la carne o il pesce, senza utilizzare l’acqua? E come si può bere una zuppa in cui l’acqua sia l’unico elemento? Armonia è come cucinare una zuppa con molti ingredienti. 

È per questo motivo che le diverse civiltà si devono rispettare reciprocamente e vivere in armonia, mettendo a fattore comune lo scambio e l’apprendimento delle reciproche realtà. Il multilateralismo del presidente cinese e la cooperazione internazionale, che si possono estrapolare dal concetto di armonia senza uniformità, sono due cardini della politica estera con cui la Cina si presenta al mondo.  Vorrà dire quindi che, alla luce della saggezza cinese, le truppe radunate a Shenzhen non marceranno su Hong Kong? È difficile pensare che oggi, con gli occhi del mondo puntati addosso, in una fase delicata del ciclo economico e con una guerra commerciale in corso, Pechino possa permettersi di reprimere il dissenso con un intervento armato. Tuttavia, c’è l’evidente rischio che, se fossero accolte le richieste dei contestatori del governo di Hong Kong, altre aree di dissenso potrebbero prendere esempio. Non è un caso che il governo cinese abbia più volte bollato alcune di queste proteste come atti di terrorismo. Le truppe pronte a Shenzhen stanno proprio a testimoniare una possibile risposta della potenza cinese a richieste che sono irricevibili, perché veicolate da azioni violente, che possono giustificare un intervento armato. 

DALLA FAMIGLIA NON SI ESCE

Già nel discorso d’apertura della storica assemblea del Partito comunista cinese nell’ottobre del 2017, nell’affrontare il tema delle regioni che vogliono dichiarare la propria indipendenza dalla Cina, Xi Jinping si era riferito direttamente a Taiwan e a Hong Kong. Allora il presidente aveva affermato che non avrebbe tollerato alcun tentativo da parte di chi avesse cercato, in qualsiasi modo e momento, di separarsi anche di un centimetro dal continente cinese. «Il sangue è più denso dell’acqua», aveva sottolineato, rimarcando che dalla «famiglia cinese» non è possibile dividersi. Pechino infatti esercita pressioni anche su Taiwan, che ritiene un suo territorio, benché per anni ne abbia tollerato l’indipendenza. Non è escluso che, tra gli obiettivi di Xi, vi sia anche la riunificazione della Cina, ma la minaccia militare su Taiwan è più difficile da esercitare rispetto a quella su Hong Kong. La Cina definisce Taiwan la «provincia ribelle». 

Da un sondaggio, con cui periodicamente l’università Chengchi di Taipei registra la percezione che i taiwanesi hanno della loro identità, emerge che più della metà degli intervistati si definisce taiwanese, il 34% cinese-taiwanese e solo il 3% si dice genericamente cinese. Secondo la stessa indagine, nel 1992 solo il 17% degli intervistati si definiva esclusivamente taiwanese. (rif. internazionale.it/reportage/junko-terao/2019/04/30/elezioni-indipendenza-taiwan-cina). Ciò che emerge poi di ancora più significativo è che la formula «un paese, due sistemi» risulta particolarmente ostile ai 23 milioni di abitanti di Formosa.

Nel 2020 a Taiwan si terranno le elezioni presidenziali. L’attuale capo dello stato, Tsai Ing-wen, del Democratic progressive party (Dpp), punta alla candidatura per il secondo mandato, che dovrà però contendersi con William Lai, già primo ministro del suo governo. All’opposizione, nel Kuomintang, la contesa sarà invece tra Terry Gou, fondatore della Foxconn, e il populista Han Kuo-yu, particolarmente corteggiato dai filo-cinesi. Tsai vorrebbe che Pechino riconoscesse l’indipendenza di Taiwan e ne rispettasse il sistema democratico, mentre il Kuomintang sostiene che le relazioni tra i due stati sono definite dal “Consenso del 1992”, un accordo che si basa sul presupposto che esista un’unica Cina. 

Forse i taiwanesi  auspicherebbero che l’attuale situazione continuasse senza che alcuna decisione unilaterale venisse presa, ma il sogno cinese di Xi Jinping vorrebbe che anche all’isola fosse proposta una soluzione simile a quella adottata per Hong Kong: «Un paese, due sistemi».  

ANIMI POCO SERENI

Le scene di violenza, gli interventi delle forze dell’ordine che si sono visti ad Hong Kong e la manipolazione delle informazioni attraverso centinaia di account aperti su Twitter e Facebook per screditare la protesta non rasserenano però gli animi dei taiwanesi. Inoltre, non va dimenticato che gli abitanti di Formosa non si sono mai espressi sul Consenso del 1992.

Taiwan è una nazione indipendente con un’economia la cui spina dorsale è costituita dalle piccole e medie imprese. Lo sforzo negli ultimi anni è stato diminuire la dipendenza dall’economia cinese e aumentare la competitività dell’industria, ridimensionando l’intervento dello stato nel settore delle esportazioni e aprendo sempre più il proprio mercato (anche quello finanziario) con riforme di liberalizzazione. Il Pil del secondo trimestre mostra una crescita, su base annuale, del 2,4%, resa possibile dallo sforzo di trasferimento a Taiwan delle attività delocalizzate in Cina, per evitare l’applicazione delle tariffe da parte degli Usa. 

Gli investimenti del paese hanno conosciuto un’accelerazione, con una forte partecipazione pubblica e stimoli da parte del governo. Le aspettative che questa fase positiva possa continuare anche nel trimestre successivo sono concrete. Pensare che la Cina vanti qualche diritto sull’isola parrebbe veramente irrealistico e, comunque, comporterebbe un’azione di forza molto superiore e pericolosa di quella necessaria per riportare la “normalità” a Hong Kong. 

UNA STRATEGIA DI EQUILIBRI

A Xi Jinping spetta ora orchestrare una strategia di equilibri che non getti discredito sull’immagine di sé che ha voluto offrire a livello internazionale e che mantenga saldo il suo ruolo di grande leader nel proprio paese. Ha bisogno soprattutto di mantenere il controllo all’interno del suo partito che, nel passato, ha dato prova di quanto possa agire senza scrupoli. L’auspicio è che, in queste delicate questioni, vinca la politica, nel senso puro del termine. Purtroppo la cosa non è così scontata. È  curioso infatti rilevare che le stesse dichiarazioni del presidente Donald Trump abbiano suggerito che gli Stati Uniti non obbietterebbero a una repressione a Hong Kong da parte della Cina. La cronaca riporta che lo stesso ministro del commercio, Wilbur Ross, ha detto che la questione dell’ex-colonia riguarda solo Pechino: «Che cosa dovremmo fare, invadere Hong Kong?» Ma questa affermazione è forse il risultato della degenerazione della politica, che sembra ormai diventato un male condiviso.

a cura di Pinuccia Parini

tratto da: https://www.fondiesicav.it/hong-kong-il-dilemma-di-xi-e-la-partita-con-taiwan/