L’analcolico che giunge sempre a proposito!
Estate. Tempo di bibite fresche e frizzanti, di aperitivi con l’oliva, il seltz e un bel cubetto di ghiaccio. Tempo di gialli da leggere comodamente seduti sotto l’ombrellone, ma anche di delitti. Quelli che, complice l’assenza degli inquirenti, la canicola e il vuoto nelle pagine dei giornali, si trasformano immancabilmente in grandi misteri, stimolando interrogativi nella popolazione dei bagnanti e accesi dibattiti tra innocentisti e colpevolisti, capaci di durare ben oltre le piogge autunnali.
È un’Italia in bianco e nero, munita di plaid nel baule dell’auto, di cestini da picnic e di radioline a transistor quella che, la mattina del 26 agosto 1962, scopre che la tradizione dei Borgia e la predilezione per l’avvelenamento alimentare non è andata perduta. Si è, anzi, modernizzata, sfruttando le insidie di quella che, per dare un tocco d’internazionalità al vecchio mestiere dell’imbonitore, è diventata réclame.
«Chi beve birra campa cent’anni» assicura una di queste pubblicità. La stessa cosa non si può dire di chi beve Bitter, specie se ha una moglie particolarmente irrequieta.
Nel caldo di fine estate, ad Arma di Taggia in provincia d’Imperia, Tranquillo Allevi detto Tino, venditore di formaggi, cade a terra rantolando in mezzo a conati di vomito, dopo aver bevuto un sorso di Bitter analcolico San Pellegrino. Che può non piacere a tutti, ma in genere non produce tali effetti. Morirà, tra spasmi tremendi, in poche decine di minuti. Interminabili, per chi è stato avvelenato da trenta milligrammi di stricnina.
Sul bancone della sua bottega un pacchetto aperto e una missiva: «Caro signore, poiché avremmo intenzione di lanciare sul mercato questo nuovo aperitivo, offrendole la rappresentanza nella zona, ci permettiamo di disturbarla con l’invio di un campione. Lo assaggi. Un nostro incaricato verrà a trovarla per conoscere il suo parere».
Era già da giorni che quel pacchetto girava per la cittadina ligure. Era stato recapitato il 22 all’ufficio postale, con raccomandata spedita da Milano, ufficio della Stazione Centrale. Un plico di cartone chiuso con delle strane strisce di carta incollate in maniera sommaria.
La Egle, l’anziana postina del paese, si era incaricata di portarlo in fretta al destinatario. Conosceva bene Tino il formaggiaro, titolare di un bel negozio con annesso magazzino, sistemato in mezzo ai carruggi. Con quel caldo non poteva certo aspettare le bizze degli orari di consegna, chissà mai che il pacco contenesse cose deperibili e poi le lamentele le avrebbe sentite lei. Col Tino non si scherza. Aveva caricato la scatola sul portapacchi della bici e si era avviata verso via San Francesco. Ma il campanello suonava a vuoto. Chissà dove si era cacciato l’Allevi. Meglio andare allo spaccio.
Ci aveva pensato la moglie Renata a ritirarlo. «Tino è a Genova per commissioni di lavoro e torna in serata, dai pure a me e tieni 200 lire per il bar. Vai a prenderti una bibita. Con questa calura ci vuole proprio».
La postina si era raccomandata che lo mettesse in frigo. Magari, chissà, contiene dei formaggi.
Già…chissà cosa contiene. Il mittente è illeggibile. C’è solo il timbro dell’ufficio postale di Milano. Meglio aprirlo e controllare.
In mezzo all’imballo di segatura, galleggiava una bottiglietta trasparente, con un liquido quasi violaceo, chiusa con un tappo in sughero con modalità ben poco commerciali. Strana cosa.
Per fortuna dentro al cartone c’era una lettera d’accompagnamento. Si parlava addirittura di rappresentanza nella zona. E poi quella firma: ufficio vendite San Pellegrino. Accidenti, sembrava una cosa importante. Una cosa da uomini. Meglio aspettare il Tino.
L’aveva appoggiata sotto il bancone per poi dimenticarsene troppo affaccendata dai turisti che volevano qualche cosa da mettere sotto i denti.
Era stato Marcello Allegranza, l’aiutante, a notarlo all’indomani. Aveva letto la missiva e avvertito il Tino che si trattava di una cosa della massima urgenza. Un’occasione simile non passa ogni giorno. Rappresentante della San Pellegrino. Accidenti se suonava bene. Rappresentante per tutta la zona. Proprio tutta. C’era di che leccarsi barba e baffi. E avevano scelto Tino il formaggiaro, questi del nord, gente così importante da fare pure la pubblicità sul Carosello, prima del Mike Bongiorno e di Canzonissima.
Marcello l’aveva vista più volte quella réclame. Ogni volta che andava al bar per vedere la televisione. Anche nel filmato c’era un bar, un bar molto elegante. Lo chiamavano American Bar, e solo il nome pareva roba da ricchi. Poi c’era una donna bellissima con un accompagnatore giovane e distinto, che con sicurezza ordinava la bibita giusta, rendendo felice la signora. Per la verità lo slogan sembrava un po’ contorto: «Non bevete a sproposito, San Pellegrino bitter, l’analcolico, giunge sempre a proposito!». Mah. L’importante era che quella bibita vendesse e su questo non c’era alcun dubbio.

L’arma del delitto
Tino Allevi aveva indetto una riunione solenne attorno alla bottiglietta. Presenti la moglie e i suoi collaboratori Marcello e Arnaldo Paini, fornitore di prodotti caseari, arrivato direttamente da Parma, per consigliare al meglio il socio d’affari.
Primo punto all’ordine del giorno: massima segretezza. Guai se ai commercianti della zona fosse giunta la notizia. In un attimo, l’affare poteva sfumare.
Secondo punto: verificare tramite elenco telefonico e mediante indagini tra gli amici del bar Sport se per caso non ci fosse già un rappresentante San Pellegrino in zona. Se c’era, doveva averla fatta proprio grossa per perdere quella fantastica opportunità.
Terzo punto: dedicarsi all’assaggio per poi decantare le doti, tramite relazione da far redigere al professor Trenzi, ex docente della locale Scuola media maschile statale, che sarà pure in pensione e un po’ in bambola, ma a scrivere in bella calligrafia è ancora capace.
La signora Renata pensava ingenuamente che fosse giunto il momento di aprire la sospirata bottiglietta e procedere al test, quando fu bloccata dal marito. «Questo è un lavoro serio, mica il the con le amiche. Bisogna fare le cose per bene. Il bitter è un aperitivo e va bevuto freddo. Meglio ancora, ghiacciato. Adesso lo mettiamo in frigorifero per quattro ore e poi procediamo».
L’attesa fu dedicata allo studio del mercato. Con alle spalle una grande società come quella lombarda, si poteva tranquillamente chiudere l’attività casearia, piena di incognite, per occuparsi esclusivamente delle bibite. Chi non conosce l’acqua benefica che sgorgava gratis dal ventre della Val Brembana e chi non apprezzava l’aranciata omonima? Sugli scaffali di qualche negozio si vedeva pure il Rabarbaro San Pellegrino. E poi il Chinotto. Ogni anno un’idea nuova.
Tutti i baristi della zona avrebbero ordinato la magica bevanda e lui sarebbe diventato ricco solo rispondendo al telefono. Roba da fregarsi le mani.
Sabato 25 agosto all’ora di cena, tutto era pronto per la fatidica prova. Tino diresse le operazioni con la precisione di un generale in battaglia. Le donne a casa e i tre assaggiatori in negozio. Luci spente e saracinesca abbassata per evitare curiosità paesane. Penna e foglio per annotare ogni passaggio procedurale.
«Colore?» Bisognerà pure dire qualche cosa ai signori della San Pellegrino sul colore. Marcello, scrivi…: «la bibita si presenta di colore rosso scuro, quasi viola. È diversa dagli altri bitter in commercio. Sicuramente una scelta dell’azienda per fare un prodotto nuovo. Che noi approviamo perché ricorda il vino delle nostre terre» dettò l’Allevi.
«Procediamo a stappare e a versare in tre bicchieri. Alla salute e agli affari!»
La smorfia di disgusto dipinta sul volto di Tranquillo Allevi trattenne gli altri due dal gettarsi sull’analcolico. «Che schifo, è amarissimo, peggio di un veleno…».
Paini si limitò ad annusare il liquido. «Porca di una… ho capito! Bello scherzo del cazzo. Tino, questa è opera degli amici dell’osteria, mi gioco le palle se non hanno messo del purgante nel bitter. Altro che San Pellegrino, ci siamo cascati come dei fessi».
Ma Tino non risponde. Rantola, ha la bava alla bocca, non riesce a respirare. I soci si gettano sul telefono per chiamare l’ambulanza. I minuti scorrono, ma non si sentono sirene arrivare. L’Allevi sta sempre peggio, ora ha dei fremiti, si muove a scatti inarcando la schiena come fosse colpito da una scarica elettrica. Non resta che correre all’automobile e portare il malcapitato alla clinica Villa Spinola, la più vicina. Ci vorrà una lavanda gastrica. Bello scherzo del cazzo.
È troppo tardi. Alle 22.40, il medico di guardia può solo constatare il decesso per soffocamento.
All’ospedale accorre la signora Renata incredula, ma anche la polizia mandata da Imperia ed il medico legale spedito in tutta fretta da Genova. Una cosa del genere non si era mai vista. Un avvelenamento bello e buono, altro che purga.
Stricnina. Normalmente usata per sterminare i topi, reperibile con una certa facilità in ogni farmacia e in ogni negozio di prodotti agrari. Una morsa che blocca il sistema nervoso e toglie il respiro. Una brutta morte e un brutto affare per gli uomini della Squadra omicidi.
All’alba di domenica 26 agosto, gli italiani si vedono servire, insieme al cappuccino e alla brioche, il giallo del bitter che entusiasmerà i lettori dei rotocalchi e i pochi fortunati che già possiedono una televisione.
Nelle Cinquecento che si avviano mestamente verso il controesodo di fine estate, non si parla d’altro. L’avrà ammazzato la moglie. Sicuro.
Chi se non lei, può aver ideato la trappola infernale? Chi può avere dei motivi per uccidere con raffinata crudeltà quell’uomo tranquillo di nome e di fatto, che ha come unica colpa l’essere di ben tredici anni più vecchio della consorte?
Gli inquirenti seguono lo stesso copione, raccogliendo ogni pettegolezzo che circola nella piccola cittadina ligure.
Di persone disposte a fare la fila davanti all’ufficio di polizia di Arma di Taggia ce ne sono un mucchio. Ognuna con la sua piccola verità, ognuna con il dito puntato verso la donna.
Renata Lualdi ha trentasette anni, un figlio di undici e l’aspetto della casalinga un po’ ingrigita. Si fa fatica a riconoscere nelle foto dell’epoca la Messalina che emerge dagli interrogatori e dalle testimonianze. Molta fatica.

Renata Lualdi nel corridoio della questura
«Tormentata da un forte temperamento erotico e priva di qualunque senso morale» scriveranno i magistrati, eterni biografi e censori di quest’Italietta da commedia nella quale i giudizi arrivano sempre prima dei fatti. La popolazione è concorde e ha già emesso la sua sentenza, ben più spiccia della retorica forense: «Porca!». Come sintetizza una scritta vergata nella notte sul muro della casa di Renata.
Si dice che non abbia mai amato quel marito un po’ pingue, dal temperamento del rude contadino e dalla parlata proletaria. Si dice che le sue gambe scattanti si trovino a loro agio in balera, piuttosto che sotto il tavolo della cassa. Si dice che sia più interessata ai muscoli dei giovani bagnanti piuttosto che alle crescenze e ai gorgonzola. Si dicono tante cose. Troppe.
Nei commenti dei cronisti che si fiondano su Arma di Taggia per intervistare chiunque varchi la soglia di casa, il delitto del bitter è un divorzio all’italiana. Quello che, ancora vietato dalla Chiesa e dallo Stato, si può ottenere solo con la sepoltura del coniuge.
«Non sono una brava moglie, è vero! Faccio quello che le mogli più devote di me si limitano a sognare, ma non ho ucciso mio marito» si difende lei.
Molti i sospetti annotati sui taccuini dei poliziotti, ma nemmeno lo straccio di una prova.
La donna non è uscita dal paese, come avrebbe potuto portare il pacco maledetto a Milano? La perizia calligrafica esclude che sia lei la firmataria della bolla di spedizione, chi può averla compilata? Ha un complice? È la mandante del delitto? Può essere così pazza da rischiare la morte di due innocenti per eliminare il marito? Con che soldi vivrebbe da vedova allegra, visto che gli affari vanno di male in peggio?
L’assassino era stato scaltro e aveva dimostrato di conoscere bene il suo pollo. Non solo perché il famoso pacchetto era indirizzato a Tino Allevi, anziché a Tranquillo Allevi, come registrato all’anagrafe.
Il criminale senza volto aveva lavorato sulle debolezze della sua vittima, sulla sua voglia di sfondare, sull’eterna speranza nel colpo di fortuna. Perché Tino era fatto così. Perennemente frustrato dalla sua attività di venditore, sentiva di valere di più, di poter svoltare, non tanto per i soldi, quanto per il prestigio sociale. E per fargliela vedere alla Renata chi era suo marito.
I vicini li sentivano spesso litigare. La ragione sempre la stessa: la donna gli rinfacciava di essere un vecchio, con i suoi cinquant’anni mal portati, di essere incapace di soddisfare una donna, di puzzare di formaggio.
L’oscura mano dell’omicida aveva lavorato su quell’immensa suggestione: Bitter San Pellegrino. Non più prodotti senza nome e senza prestigio, lavorati nei caseifici della Bassa, dove l’Allevi era solito servirsi. C’era la potenza evocativa della tv dietro a quel marchio. C’era un totem da onorare. C’era il progresso.
Gli inquirenti ricostruiscono pezzo per pezzo la vita della coppia.
Tranquillo Allevi ha vissuto per molti anni a Morghengo, in provincia di Novara, dove il padre gestiva la tenuta agricola di proprietà di un editore milanese. Una vita semplice, scandita dal lavoro nei campi, fino a quando non era accaduto il fattaccio. Un’avventura in mezzo alle spighe con la ragazza più chiacchierata del paese.
Tino non si cura dei pettegolezzi e delle risatine che lo accompagnano quando gira per i portici del paese. Non si cura nemmeno di ciò di cui dovrebbe e infatti la giovane resta incinta.
«Ho dovuto sposare quel vecchio, un matrimonio riparatore per stroncare le maldicenze, ma in cuor mio lo odiavo. E lo tradivo. Vero, verissimo. Si può chiedere ad una farfalla di non volare?» spiegherà più tardi.
I giudici faranno un po’ di fatica a ricostruire tutti i voli della sospettata, ma alla fine un nome emerge tra gli altri: il dottor Renzo Ferrari, quarantenne dal fisico slanciato, lo sguardo strafottente e un bel ciuffo di capelli degno di Little Tony. Tutti a Morghengo sanno che il veterinario del paese è stato per anni l’amante ufficiale della Renata.

Renzo Ferrari sul banco degli imputati
I carabinieri lo rintracciano mentre cena all’osteria, commentando con gli amici quella strana vicenda capitata a 250 chilometri di distanza.
L’uomo ha un atteggiamento sprezzante ed evasivo che infastidisce non poco il tenente Ernesto Teobaldi, incaricato delle indagini Tra vanterie erotiche da vitellone di paese e l’uso costante e fastidiosamente provocatorio dell’aggettivo tranquillo (il nome della vittima), riesce solo a far innervosire chi cerca di far luce su questo Decameron, scritto tra pesto e taleggio. Non ci vuole molto a scoprire che la relazione con Renata è proseguita anche dopo il trasferimento della signora ad Arma di Taggia e che il playboy novarese è un pendolare dell’amore che fa su e giù tra Morghengo e la cittadina ligure.
Le caselle del domino iniziano a cadere, una dopo l’altra. Il viaggio a Milano, proprio il giorno della famosa spedizione, l’acquisto in farmacia di sei fiale di stricnina, la macchina da scrivere Lexicon 80 usata per scrivere la famosa lettera trovata nel suo ufficio.
Nel marzo del 1964 il bel Renzo, come iniziano a soprannominarlo i giornali, fa la sua comparsa in tribunale, tra l’ammirazione di molte sue fan. «L’indifferente» come lo ritrae Oriana Fallaci per le pagine dell’Europeo, non delude le aspettative, pensando più a deridere l’accusa e a vantare le sue gesta erotiche più che a difendersi.

Le fans di Renzo Ferrari
Il 15 marzo 1964 i giudici uscirono dalla camera di Consiglio di uno dei processi più seguiti nella storia del dopoguerra, con la loro verità in tasca. Renzo Ferrari è l’assassino di Tranquillo Allevi, ucciso per banale gelosia e viene condannato all’ergastolo. Renata Lualdi verrà scagionata da ogni sospetto, giacché lei stessa ha rischiato di rimanere vittima del bitter al veleno.
Il giudice, alla lettura del verdetto, ha l’occasione per commentare l’ingenuità della vittima e l’esigenza di non cedere alle lusinghe del guadagno facile e al potere della réclame, «male del nostro secolo che instupidisce la gente e fa passare l’acqua per vino, il ferro per oro».

Renzo Ferrari scherza con i giornalisti
Ferrari passerà ventiquattro anni in galera e la sua storia, come spesso accade agli assassini dei gialli estivi, cadrà presto nel dimenticatoio. Verrà riesumata dall’ex Presidente Cossiga, molto attivo sul fronte dei provvedimenti di grazia per gli autori di delitti comuni, nel 1986 che concederà l’agognato provvedimento. L’autore del delitto del bitter tuttavia non godrà a lungo della libertà ritrovata, morendo due anni dopo a causa di un ictus.
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