È possibile morire in uno dei luoghi più affollati di Milano, senza che nessuno abbia visto, senza un colpevole o almeno un movente? L’omicidio di Simonetta Ferrero all’interno dell’Università Cattolica, un enigma al quale ogni criminologo vorrebbe dare una soluzione.

Università cattolica di Milano
Si può morire a due passi da casa, in uno dei luoghi più frequentati di Milano, senza un perché, senza un indizio, senza lasciare una flebile traccia del proprio passaggio? L’estate del 1971 porta con sé uno dei delitti più atroci e insieme più inspiegabili, avvenuto nello scenario meno prevedibile, l’Università Cattolica, la cittadella della cultura lombarda ospitata dagli austeri muri del monastero cistercense e dei suoi splendidi chiostri bramanteschi.
Simonetta Ferrero oggi sarebbe una signora prossima agli ottantanni, eppure nella memoria collettiva è ancora la giovane che ha trovato una morte insensata in Largo Gemelli, vittima di eventi misteriosi sui quali generazioni di inquirenti, giudici e criminologi si sono scervellati invano.
Quello che per tutti diventerà il “giallo della Cattolica” inizia alle nove di mattino di un afoso sabato 24 luglio 1971, in un appartamento borghese di via Osoppo 2.
La ventiseienne Simonetta saluta frettolosamente i genitori, deve andare in centro a sbrigare delle commissioni per poi tornare a casa all’ora di pranzo.
«Sì mamma, lo so che devo ancora finire la valigia e che domani si parte all’alba, faccio due cose e poi arrivo, non preoccuparti», le sue ultime parole.
Si avvia verso il tram che viaggia in direzione di Corso Vercelli, poche fermate ed è già arrivata di fronte al negozio del tappezziere, dove è attesa per scegliere le stoffe da destinare ai nuovi cuscini del salotto. Di queste faccende ama occuparsi lei e la mamma, con la quale condivide molti gusti, sa che lo farà nel migliore dei modi. Qualche sua amica pensa che queste incombenze non si addicano ad una giovane al passo con i tempi. Chi la conosce bene, come i compagni del liceo o gli amici della parrocchia, la prende bonariamente in giro, per quel suo stile un po’ demodé, per quella sua aria acqua e sapone, i capelli raccolti, un filo di perle sempre al collo, la camicetta chiusa fino all’ultimo bottone, la gonna che arriva al ginocchio. Per Simonetta il ’68, la rivolta giovanile, i jeans e la minigonna, sembra non ci siano mai stati.

Simonetta Ferrero
Risolta la prima incombenza prosegue a piedi verso Corso Magenta. Entra in una libreria per acquistare un dizionario tascabile italiano-francese. Il traghetto della Corsica Ferries la attende all’indomani, per una vacanza con tutta la famiglia e lei, precisa com’è, non vuole farsi cogliere impreparata da una lingua che conosce poco. Lo scontrino segna le 10:37, c’è tutto il tempo per arrivare puntuali all’appuntamento con l’estetista, fissato per le 11 nella piccola galleria Borella, vicino all’Università Cattolica. Depilazione a prova di costume e acquisto di creme solari. È quasi mezzogiorno quando esce dalla porta a vetri della profumeria. Per svanire nel nulla.
L’ingegner Francesco Ferrero, funzionario della Montedison, non si dà pace. Sono suonate le tre del pomeriggio e la figlia non dà notizie. Il cibo servito dalla signora Liliana è ormai freddo e della ragazza non c’è traccia. Non è un comportamento normale, non è mai mancata a un pranzo senza avvisare per tempo. Deve essere successo qualcosa, magari si è sentita male, ha avuto un incidente. Partono le telefonate agli ospedali, Elisa ed Elisabetta, le sorelle di Simonetta, battono il percorso fatto dalla giovane. Tappezziere, profumeria… nulla. Passano le ore e cresce l’ansia. Non resta che chiamare la polizia.
Alle 20 giunge la segnalazione in Questura. Il maresciallo Zagaro apre diligentemente una cartelletta e vi infila un foglio scritto a macchina nei consueti toni burocratici.

Simonetta
Simonetta Ferrero, anni 26, abitante a Milano via Osoppo 2, laureata in Scienze Politiche presso l’Università Cattolica di Milano, impiegata al centro laureati Montedison di Piazza Cadorna 5. Denuncia di scomparsa a nome di Francesco Ferrero, in qualità di padre. Segni particolari: altezza 1.65, occhi chiari, capelli castani. Aspetto al momento dell’ultimo avvistamento: pettinatura raccolta sulla nuca mediante laccetto, camicia di cotone bianca, gonna grigio scuro, scarpa estiva, borsetta modello tracolla in tessuto e cuoio contenente documenti ed effetti personali.
Una volante si mette in moto per le prime ricerche, ma gli esiti non sono confortanti. A tarda sera, mentre un violento acquazzone scuote la città, Francesco, già sofferente di cuore, crolla per l’ansia e deve essere ricoverato all’Ospedale Fatebenefratelli.
È una domenica di lavoro quella che si prospetta agli uomini della squadra mobile, una noiosa e frustrante incombenza, fatta d’infinite domande e di poche risposte: cercare, in una Milano ormai svuotata dall’esodo estivo, una ragazza anonima la cui vita privata, come confermano tutti i conoscenti, sembra lo specchio delle virtù.
«La figlia che ogni padre vorrebbe avere», così avevano trascritto gli agenti dopo i primi colloqui con papà Francesco. Lontanissima dalle inquietudini che smuovono l’universo giovanile. Laureata con ottimi voti e subito impiegata, volontaria della Croce Rossa, dama di San Vincenzo, amante della musica classica e dei romanzi d’autore. Cattolica praticante che, per nessuna ragione, avrebbe perso una messa domenicale. Vita sentimentale irreprensibile in attesa che la sorte le destinasse l’uomo giusto con il quale convolare a nozze. Ottimi rapporti con i genitori e perfino uno zio monsignore, giusto per impreziosire il quadro familiare.
Un rapimento? La famiglia è benestante, ma non certo tale da far presagire lauti guadagni. Uno scambio di persona? Sarebbe già a casa. Un maniaco che si aggira nel pieno centro di Milano? Tutto può essere, ma Simonetta non sembra il tipo da dare confidenze o accettare inviti da sconosciuti. Nebbia sull’indagine. Calda e soffocante come le strade deserte che costeggiano piazza Sant’Ambrogio, l’ultimo luogo nel quale la ragazza è stata avvistata. Interrogativi senza risposta, come i negozi chiusi per ferie.
Lunedì mattina arriva una nuova telefonata al 113. È il rettore dell’Università di Largo Gemelli e sembra molto agitato, è successo qualche cosa di inaudito proprio all’interno della cittadella.
La Polizia di Stato ha un distaccamento in piazza, a cento metri dall’ingresso del palazzo. Due minuti e le prime volanti sono già davanti al portone. Una studentessa della facoltà di storia è seduta su una panchina del rettorato in stato di visibile choc e sta ripetendo ossessivamente ciò che ha visto.

Chiostro della scala G
«Saranno state le 8:40 e stavo salendo la scala G, quella in fondo all’ultimo cortile, per andare al primo piano a vedere le date degli appelli. Sul pianerottolo un ragazzo che proveniva dall’ammezzato, dove ci sono i bagni, mi è venuto incontro con un’aria sconvolta. Mi ha quasi travolta e poi senza dire nulla è sceso correndo verso il pianterreno. La cosa mi ha incuriosita, volevo capire da cosa fuggisse e sapendo che su quel piano ci sono i bagni femminili volevo approfittarne per lavarmi le mani e bere un po’ d’acqua. Così ho aperto la porta e mi sono trovata quell’orrore davanti»1.
Gli uomini in divisa guidati dal rettore e dal personale universitario attraversano a passo spedito i due portici resi deserti dall’orario e dalla sospensione estiva dei corsi, salgono i pochi gradini della scala G e si trovano di fronte la porta del bagno. È semiaperta e sulla maniglia, sullo stipite, sul muro esterno ci sono evidenti tracce che vanno dal rosso al blu, fino al violaceo. Sangue ormai essiccato.

La porta dell’antibagno femminile
La stanza, o meglio le stanze, perché i servizi femminili sono muniti di un antibagno nel quale si trovano i lavandini e di un bagno vero e proprio, a sua volta diviso in sei postazioni, è diventato un mattatoio nel quale, in una pozza di sangue rappreso, giace il corpo di una giovane donna. Non ci sono dubbi: è Simonetta Ferrero.
Arriva il momento dei riconoscimenti, delle lacrime, delle foto, dei segni di gesso sul pavimento, della mappatura, dell’ambulanza che porta il corpo all’obitorio di via Ponzio, verso quell’autopsia che dovrebbe dare le prime risposte sulle modalità del barbaro omicidio. Ci vuole poco, per gli uomini della Scientifica, a capire che si tratta di un delitto della peggior specie, quelli senza un movente apparente, nei quali il colpevole va trovato immediatamente, prima che le piste si confondano, gli alibi si rinforzino e le cattive coscienze si acquietino.
Un’arma da taglio, lunga almeno venti centimetri, si è abbattuta con cieca violenza per ben quarantatré volte: una vera mattanza, frutto di un odio cieco, di una follia omicida senza una spiegazione logica. L’aggressione, presumibilmente, è avvenuta di fronte ai lavandini. Lì devono essere giunti i primi colpi ai quali Simonetta ha cercato di opporsi, come dicono le numerose ferite da difesa su mani e braccia, per poi tentare la fuga chiudendosi all’interno di uno dei bagni.
Ha provato in ogni maniera a tenere chiusa quella porta priva di serratura, poi ha ceduto. È uscita nella speranza di raggiungere il corridoio. Si è appoggiata alle pareti, ha lottato fino all’ultimo spasmo di vita, con le mani ferite ha avuto ancora la forza di graffiare le braccia dell’aggressore, donando così agli inquirenti un prezioso indizio per attribuirgli anche un volto. L’ultima fuga, con le gambe che non rispondono più ai comandi del cervello ed infine il crollo.

Il luogo del delitto
« È morta composta come ha vissuto», scriverà L’Avvenire. Una forma retorica per dire che si è adagiata a terra senza che l’assassino ne oltraggiasse in qualche modo il corpo. Nessun segno d’aggressione sessuale, la borsa con il portafogli intonso, la collana al suo posto. E un movente inspiegabile.
L’assassino non si è premurato di pulire nulla. Sicuramente si è ferito anche lui perché molte delle tracce ematiche riportano ad un gruppo sanguigno diverso da quello della vittima.

Il lavandino insanguinato
Si è lavato, lasciando il lavandino sporco e l’acqua corrente, ha toccato porte e maniglie. Si è cambiato d’abito? Deve averlo fatto, come avrebbe potuto altrimenti uscire dall’università? E se non fosse uscito? Non subito, almeno? Se si trattasse di qualcuno che ha lì dentro il proprio ufficio e possiede le chiavi per andare e venire? Sono tante le domande che girano nella testa del vicequestore Antonino Orlando, tornato in fratta e furia dalle ferie per dedicarsi anima e corpo alle indagini.
In un caso d’omicidio ci sono delle priorità. La prima è stabilire con certezza la data della morte. Simonetta è scomparsa sabato 24 luglio intorno a mezzogiorno. Il medico legale non ci mette molto a chiarire che la morte risale a poche decine di minuti dopo l’ultimo avvistamento sicuro. Dunque, appena uscita dalla porta dell’estetista si è recata in università. Perché l’ha fatto? Come si è cacciata in una scala isolata, lontano dalla porta d’ingresso, in un’area che non fa parte della facoltà di Scienze politiche da lei precedentemente frequentata? Il medico legale fornisce anche un interessante indizio: la vescica è vuota. Prima dell’aggressione Simonetta ha avuto il tempo di andare in bagno ed è stata affrontata dal suo assassino solo al momento di lavarsi le mani.
Ha raggiunto la sua ex università proprio perché cercava un bagno? Può essere, ma perché scegliere quello più scomodo, rintracciabile solo attraversando due lunghi porticati, invece di quello vicino all’ingresso?
Per il momento le domande vengono accantonate. C’è da cercare l’indiziato numero uno: quel ragazzo visto uscire dalla studentessa che ha scoperto il corpo. Non ci vuole molto. Nel primo pomeriggio è lui stesso che, scortato dal proprio avvocato, si presenta nell’ufficio del vicequestore. Sembrerebbe la svolta.

Mario Toso
Il ragazzo ha 23 anni, il viso di un cherubino, l’aspetto compito del bravo ragazzo di provincia. Si presenta come Mario Toso, padovano, internato dell’Istituto salesiano di Mirabello Monferrato in provincia di Alessandria. Seminarista.
Un futuro prete dunque. Uno dei tanti che studiano teologia in università.
Per ogni domanda degli inquirenti c’è una risposta: fredda, a tratti insensibile, forse insoddisfacente, ma sempre puntuale. «Sono arrivato in Cattolica per la messa delle otto Appena finita, saranno state le otto e trentacinque, mi sono recato verso la segreteria dell’Istituto di scienze religiose, al primo piano della scala G, dove volevo controllare la data dell’appello di un esame. Giunto all’ammezzato ho sentito lo scrosciare d’acqua che proveniva da un rubinetto lasciato aperto nei bagni femminili. Mi sono avviato verso la porta con l’intenzione di chiuderlo. L’ho aperta e ho immediatamente visto dei segni rossi, come delle ditate sparse dappertutto. Anche attorno ai lavandini c’erano tracce rosse. Sono stato colpito dal forte odore che proveniva dalla zona e sono andato a controllare cosa fosse successo. Li ho visto il cadavere e preso dal panico sono fuggito senza riuscire a dare l’allarme»2.
Un racconto contorto, strano, contraddittorio che non convince gli inquirenti. La domanda è sempre la stessa: perché un ragazzo che sta per indossare la tonaca, che appare pieno di scrupoli morali e d’inibizioni, sarebbe entrato con nonchalance nei bagni femminili?
«Nel seminario svolgo la mansione di precettore. Ci hanno insegnato che se c’è una luce accesa va subito spenta, se le sedie sono fuori posto vanno ordinate, se un rubinetto rimane aperto bisogna intervenire subito affinché non si allaghi il bagno. È più forte di me, non posso sopportare il disordine»3. Un maniaco dell’ordine, dunque, un soggetto un po’ strambo, ma non un assassino.
Perché il giovane avrebbe dovuto tornare sul luogo del delitto? Dove sono i vestiti macchiati di sangue, visto che oggi Toso indossa gli stessi abiti che aveva sabato? Perché avrebbe dovuto aggredire una ragazza che non conosceva e non aveva mai incrociato? Ma soprattutto, dove sono le ferite e i graffi che, secondo i rilevamenti della scientifica, l’assassino si è procurato? Sono tanti i rilievi difensivi che vengono messi a verbale.
Al sospetto viene fatto un prelievo che dà esito positivo. Il sangue del seminarista risulta appartenere allo stesso gruppo di quello trovato sulle pareti e sul lavandino. Anche questo significa poco, perché comune qualche decina di milioni di italiani e perché in assenza di ferite non si capisce da dove sarebbe sgorgato.
Mentre i giornali e la tv s’interrogano sul misterioso delitto, il seminarista viene rilasciato, senza nessun provvedimento se non il classico “resti a disposizione”.
Chi è passato per i bagni e per quella maledetta scala, sabato intorno a mezzogiorno? Un luogo isolato, perso nel labirinto dell’università. Quel giorno, ai piedi della scala, c’erano quattro muratori che stavano provvedendo alla demolizione di una parete divisoria tra gli uffici del pian terreno. Secondo consuetudine, avevano staccato alle 12:30 per riprendere il lavoro circa un’ora dopo. Se fossero loro la risposta? Plausibile che il rumore dei martelli pneumatici abbia impedito di udire le richieste d’aiuto della vittima.
Vengono fermati, perquisite le loro case, sequestrati i vestiti, controllate eventuali ferite e verificato il gruppo sanguigno. Niente di niente. Luigi, Giuseppe, Nicola e Alessandro immersi nel frastuono, stavano lavorando all’interno di una stanza posta sotto il bagno maledetto e non potevano vedere né sentire nulla.

Funerali
Gli inquirenti battono ogni pista, ascoltando centinaia di possibili testimoni, ma si ritrovano con un pugno di mosche in mano. Non resta che mettersi attorno ad un tavolo, sparpagliare di nuovo le carte e vedere se si riesce a costruire un quadro logico.
La task force che indaga sul caso, composta da Antonino Orlando, dal magistrato Ugo Paolillo, dal dirigente della mobile Enzo Caracciolo e dal maresciallo Nino Giannattasio, prova a trovare il bandolo della matassa. Anche se i giornali già parlano di un maniaco, la realtà invita alla prudenza, non potendosi nemmeno escludere che a colpire la ragazza sia stata una donna. Si vaglia attentamente l’ipotesi di un appuntamento segreto tra vittima e carnefice, ma la vita privata di Simonetta non fornisce alcun appiglio. C’è anche da considerare che la ragazza avrebbe dovuto correre a casa per il pranzo e avrebbe avuto dunque pochissimo tempo per un ultimo incontro con una donna o con un uomo prima della partenza del giorno successivo.
Unica certezza è che l’assassino è uscito da quella maledetta porta fradicio di sangue e ferito e che in tale situazione avrebbe ridisceso le scale, attraversato due cortili, imboccato il portone d’uscita, eluso la sorveglianza di due uscieri, per poi allontanarsi. Modalità abbastanza improbabili.
Guardando la planimetria del complesso universitario emerge una seconda ipotesi. L’assassino
potrebbe aver proseguito oltre il corpo G, dove c’è un piccolo giardino poco frequentato, per poi scavalcare il cancello chiuso che dà su via San Pio V, e scomparire nei vicoli. C’è solo un’altra possibilità: che si sia cambiato d’abito. Un grembiule, come quelli che portano i tanti bidelli, oppure una tonaca.
Ci sono molti preti che girano per l’università, gente che conosce ogni anfratto, che lavora da anni in mezzo a quelle aule e magari possiede anche un ufficio privato senza bisogno di uscire.

La scientifica al lavoro
Il mistero dell’Università Cattolica si fa sempre più fitto. In un’epoca nella quale il dna è solo una sigla e le telecamere di sicurezza sono fantascientifiche apparecchiature che compaiono nei romanzi di Ian Fleming, bisogna confidare nell’intuito, nella fortuna, nelle testimonianze e nelle lettere anonime. Ne arrivano tante sui tavoli del vicequestore e ognuna viene letta con attenzione nella segreta speranza che contenga elementi utili. Negli anni se ne accumuleranno talmente tante da necessitare di appositi archivi, divisi per settore.
C’è, per esempio, il filone lavorativo. Complottisti che vedono trame oscure negli affari della Montedison. Agenti, più o meno segreti, che avrebbero tramato nell’ombra per colpire la povera funzionaria venuta a conoscenza di qualche indicibile segreto.
Un po’ più serie appaiono le segnalazioni di possibili contrasti con le tante persone che si rivolgevano all’ufficio della Ferrero. Il lavoro di Simonetta ha degli aspetti sgradevoli e presuppone qualche rifiuto. All’ufficio laureati nel quale, grazie all’interessamento del padre, ha trovato immediato impiego, la donna vaglia i profili scolastici e professionali di chi aspira ad un posto nella prestigiosa azienda. Qualche segnalazione parla di possibili screzi con gli esaminandi, di frustrazioni nate da un’inaspettata bocciatura, di impiegati che aspirano a migliorare la loro posizione, bloccati dall’inflessibile ventiseienne. Un’accurata indagine sull’operato dell’ufficio laureati non porta nessun esito, nulla di significativo per giustificare un crimine tanto efferato.
Il fascicolo più corposo è sicuramente quello rubricato alla voce psicopatici, disturbati, nevrotici e maniaci sessuali. Sembra che nella zona adiacente alla Cattolica ne girino tanti e che molti di loro, potenzialmente pericolosi, siano iscritti ai corsi o trovino il modo per intrufolarsi tra le migliaia di persone che ogni giorno varcano il cancello dell’università.
C’è uno studente che chiama direttamente il vicequestore Orlando, accusandosi dell’omicidio. È molto informato dei fatti e descrive con minuzia di particolari la posizione del corpo, peraltro ben nota, grazie alle fotografie che il quotidiano La Notte ha pubblicato. Sembrerebbe un soggetto attendibile, fino a quando non inizia a sproloquiare di numerologia, di filosofia indiana, d’esoterismo ebraico e dell’imminente fine del mondo. Invece che a San Vittore, viene scortato all’ospedale Niguarda, per le cure del caso. Ce n’è un altro che si presenta nella segreteria di Giurisprudenza. Ha il volto imperlato di sudore, la faccia terrea, i radi capelli unti, lo sguardo allucinato di chi ha assunto delle droghe. Nella fessura del vetro protettivo, infila delle mutandine femminili, dichiarando alla stupefatta segretaria, che sono quelle che avrebbe strappato alla povera Simonetta. La donna non fa in tempo a chiamare aiuto che il presunto studente si gira e fugge. Non sarà mai identificato.
Un giovane seminarista di nome Giuseppe prende ogni giorno il treno che da Saronno giunge alla stazione Cadorna. È ossessionato dalle pendolari della cultura che si siedono negli affollati scompartimenti, ragazze con l’aspetto curato e casto, studentesse della Cattolica, che portano al collo una croce dorata o l’immagine della Madonna. Le segue fin dentro l’università e appena può allunga le mani o esibisce il membro. Ne ricava molte denunce per aggressione e per atti osceni, ma nulla che lo riconduca al bagno della scala G.
La pista giusta sembra imboccata quando una volante ferma un folle che gira attorno alle antiche mura gridando all’indirizzo delle studentesse e brandendo un coltellaccio da cucina. È un facchino di Porta Genova, già segnalato per minacce e violenze verbali. Nella sua borsa ha una risma di fogli in rime sconclusionate, scritti che inneggiano alla violenza sulle donne e se la prendono in special modo con le studentesse milanesi ree, a parer suo, di credersi chissà chi. Vive in una catapecchia sulla ferrovia insieme agli anziani genitori e ad una miriade di cani. Nella sua cameretta gli agenti trovano dei fogli di giornale minuziosamente ritagliati con particolare attenzione al caso Ferrero.
Ci sarebbero buoni motivi per trattenerlo in Questura. Purtroppo, però, l’uomo ha un alibi. Il sabato, lo passa annegando la sua rancorosa solitudine ed il suo triste disagio mentale sulle poltrone di un cinema. La maschera del Cinema Meravigli si ricorda il suo ingresso intorno alle 11:30. Ma c’è di più. Nella sua follia maniacale tiene tutti i vecchi biglietti in un vaso. Con un po’ di pazienza salta fuori quello staccato dalla matrice del 27 luglio. Matto, ma fortunato.
Una lista infinita di folli e di possibili assassini. Una lista ancora più lunga di mitomani, di testimoni confusi e d’appassionati quanto inutili giallisti della domenica. Nelle foto del funerale, tra la folla che dà l’estremo saluto a Simonetta, compare un uomo che è di casa nella chiesetta della Cattolica. È un ex panettiere sessantenne che vive di piccoli favori agli studenti, d’elemosina e di vendita di sigarette di contrabbando. Qualcuno dice di averlo visto quella mattina aggirarsi attorno alla scala G. Un nuovo fermo di polizia e un altro alibi di ferro.
Il custode dell’università ha notato un uomo sulla cinquantina che inspiegabilmente ha passato la mattinata di sabato 27 luglio seduto sulla panchina davanti alla scala incriminata. Non è uno studente e non è un professore. È vestito elegantemente, porta una giacca e la cravatta e sembra che aspetti qualcuno. Poi, come d’incanto, intorno alle dodici scompare. Un altro dei tanti fantasmi che aleggiano in questa storia.
Altri testimoni hanno incrociato un uomo molto alto, che attraversava con passo veloce e guardingo il cortile, guadagnando l’uscita. La segnalazione è interessante perché combacia con un elemento che non è mai stato divulgato alla stampa. Sul luogo del delitto, gli inquirenti hanno trovato l’impronta insanguinata di una mano dalle lunghe dita affusolate, posta ad una notevole altezza, il che fa pensare ad un assassino ben più alto della media. L’uomo però non sarà mai rintracciato.
Fedele al principio base della criminologia moderna secondo il quale se un delitto non viene risolto nelle prime ore diventa molto difficile venirne a capo, la polvere si accumula sul mistero della Cattolica. Passati dieci anni dal delitto si venne a sapere che le autorità scolastiche, nell’assoluto riserbo che si deve a luoghi tanto prestigiosi, avevano provveduto ad allontanare un padre spirituale, additato come molestatore da molte studentesse. Nel 1994, una signora di mezza età che aveva conosciuto Simonetta, raccontò ai giornali di un certo padre Angelo, abitante nel pensionato della Cattolica, che l’avrebbe infastidita nel periodo di frequentazione dei corsi. Le autorità, però, giudicarono la testimonianza un po’ troppo tardiva e non riaprirono l’indagine.
Nonostante vari tentativi, anche recenti, per riaprire le indagini, l’enigma della Cattolica resterà tale, sepolto come la scala G e i suoi bagni, che oggi non esistono più.
A cura di:
Clicca sull’immagine per contattare l’autore su linkedin