Un poeta persiano descrisse nel 1600 il Kashmir come «un paradiso in terra» per via dei suoi splendidi paesaggi. Sino a qualche anno fa era considerata la Svizzera dell’India. Oggi il conflitto tra India e Pakistan per il controllo di questa regione ne ha martoriato il territorio, rubandogli, insieme all’anima, la bellezza. «Quando arrivavi a Srinagar (la più grande città dello stato federato del Jammu e Kashmir) una volta, i cartelli dicevano “benvenuti nel Paradiso in terra”. Un paradiso, fatto di laghi annidati tra vegetazione e foreste, di alberi di mele che profumavano l’aria. (…)Quando arrivi a Srinagar adesso, nei giorni dell’odio, ti chiedi se il paradiso tornerà mai più e dubiti perfino che sia mai esistito (…) Agli angoli delle strade soldati in tenuta da combattimento presidiano il vuoto che da un momento all’altro potrebbe ancora una volta risuonare di urla ed esplosioni». http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2019/05/02/news/kashmir-1.334363
Il Kashmir è storicamente un territorio di scontro tra le due potenze nucleari confinanti, che hanno già combattuto due guerre e affrontato un conflitto per il suo controllo. La disputa territoriale risale addirittura a prima della nascita del Pakistan, avvenuta il 14 agosto 1947. Secondo il piano di spartizione previsto dall’Independence act indiano, il Kashmir era libero di aderire all’India o al Pakistan. Il maharaja, Hari Singh, voleva inizialmente che la regione diventasse indipendente ma, nell’ottobre del 1947, scelse di unirsi all’India, in cambio del suo aiuto contro un’invasione di tribù provenienti dal Pakistan. Scoppiò una guerra, cui pose fine una proposta delle Nazioni Unite di indire un referendum che chiedesse alla popolazione locale di decidere se annettersi all’India o al Pakistan. La consultazione popolare non fu possibile perché il territorio conteso non venne smilitarizzato nei tempi dovuti. Nel luglio del 1949, India e Pakistan firmarono un accordo per stabilire il cessate il fuoco e la regione venne divisa: due terzi all’India e un terzo al Pakistan. Nel 1965 seguì una seconda guerra, cui fece seguito un breve ma aspro conflitto nel 1999. Tuttora Delhi e Islamabad continuano a rivendicare il pieno controllo del Kashmir, che rimane però diviso. Nello stato di Jammu e Kashmir (conosciuto come Kashmir), controllato dall’India, negli ultimi 30 anni si sono succeduti scontri armati contro il governo indiano che hanno causato decine di migliaia di vite. L’India incolpa il Pakistan di avere agitato i disordini sostenendo i militanti separatisti nel Kashmir, un’accusa che il suo vicino nega. Di fatto il Kashmir è un territorio occupato da forze militari indiane che devono gestire una situazione sempre più esplosiva, resa più grave da infiltrazioni di gruppi jihadisti e guerriglieri, sostenuti e finanziati dai servizi segreti pachistani. Le due potenze nucleari vogliono un controllo territoriale della regione e la popolazione locale la propria indipendenza, anche se al suo interno ci sono schieramenti che propendono per l’unione con l’uno o con l’altro stato.
Negli anni ci sono stati momenti in cui la tensione si è acuita per poi stemperarsi, tanto da fare pensare che tra il 2005 e il 2008 si sarebbe raggiunto un accordo, ma poi l’attacco terroristico di Mumbai ha congelato ogni tipo di trattativa. Nell’estate del 2016 la recrudescenza degli scontri sanguinosi nel Kashmir aveva già offuscato le speranze di una pace duratura nella regione. La situazione, da allora, è andata peggiorando sino all’attentato suicida dello scorso febbraio, in cui sono morti 44 soldati indiani, che ha posto fine, nel breve, a qualsiasi speranza di un accordo tra le parti in causa.
ADDIO STATUS SPECIALE
È in tale contesto che va collocata la decisione del governo Modi, lo scorso 5 agosto, di revocare lo status speciale alla regione del Kashmir sotto controllo indiano, così come il Bharatiya Janata Party (Bjp) aveva promesso durante la recente campagna elettorale. In quel giorno è stato abolito l’articolo 370 della Costituzione indiana che riconosceva allo stato un elevato grado di autonomia. Prima dell’annuncio, nella regione, sono state tagliate le linee telefoniche e internet, bandite le riunioni pubbliche e inviate decine di migliaia di soldati. Agli stessi turisti è stato intimato, in modo minaccioso, di lasciare l’area. Due ex-primi ministri dello stato del Jammu e Kashmir sono stati messi agli arresti domiciliari e uno di loro, Mehbooba Mufti, ha dichiarato che l’azione di Nuova Delhi si prefigura come un’occupazione. Il governo pachistano ha vigorosamente condannato l’accaduto, bollato come illegittimo, e si è detto pronto a prendere in considerazione tutte le possibili opzioni per porvi un rimedio. Ha declassato i legami diplomatici con l’India e sospeso tutti gli scambi commerciali. L’India ha risposto affermando di avere agito nei confini di competenza.
All’interno del Kashmir, le opinioni sulla lealtà del territorio sono diverse: molti non vogliono che sia governato dall’India, altri preferiscono l’indipendenza o l’inclusione con il Pakistan. Nello stato del Jammu e Kashmir più del 60% della popolazione è musulmana, l’unico in India ad avere una simile maggioranza. Gli oppositori del Bjp hanno letto, nella decisione presa ad agosto dal governo indiano, la volontà di iniziare una sostituzione “etnica” e ridurre i musulmani a una minoranza. E non sarebbe la prima volta che il governo Modi esprime la sua avversione per i non-hindu.
Lo scorso luglio l’esecutivo di Delhi ha chiesto a circa 4 milioni di persone, nate e cresciute in India, di dimostrare di essere cittadini indiani, pena la perdita della nazionalità. È successo nello stato di Assam, al confine con il Bangladesh, dove c’è una comunità di musulmani pari a circa il 34% della popolazione che è stata oggetto del provvedimento. Diciassette anni fa (2002) nel Gujarat, dove l’attuale primo ministro era governatore, vi fu una strage musulmani in risposta a un attentato a un treno carico di pellegrini hindu. Le vittime, in pochi giorni, furono circa un migliaio, massacrati da squadre di hindu, con il beneplacito della polizia. Modi ha forti responsabilità politiche per quanto avvenuto, anche se formalmente fu assolto dopo un’indagine poco trasparente, e per i molteplici atti di discriminazione contro la comunità musulmana quando era a capo del Gujarat. Per le minoranze in India, sotto la guida dell’attuale governo nazionalista, sembra aprirsi un futuro adombrato da grandi incertezze.
Il 15 ottobre l’India ha iniziato a ripristinare alcune connessioni telefoniche interrotte in agosto, anche se i servizi Internet e circa 2,6 milioni connessioni telefoniche prepagate rimangono sospese. La regione è stata riaperta al turismo, ma la popolazione locale ha iniziato una protesta silenziosa, di disobbedienza civile, tenendo i negozi chiusi o aprendoli solo per poche ore. Molti leader politici del Kashmir rimangono incarcerati e chi è stato liberato lo ha fatto impegnandosi a non intraprendere alcuna attività di protesta. Il governo della più grande democrazia al mondo nega i diritti civili ai cittadini di un suo stato. Quello che sembra un lento ritorno alla normalità nasconde una repressione ancora in corso.
LE FORZE IN CAMPO
Quale sarà l’evoluzione del conflitto nel Kashmir? La comunità internazionale chiede una risoluzione pacifica. In termini di forze militari in campo, l’India risulta superiore al Pakistan. Nel 2018 circa il 2,1% del budget indiano fu allocato alla difesa, per un ammontare di 58 miliardi di dollari, a sostegno di una forza militare attiva composta da 1,4 milioni di soldati. Le spese militari del Pakistan sono invece state il 3,6% del Pil (circa 11 miliardi di dollari) e le forze armate sono meno della metà di quelle indiane (Fonte: International institute for strategic studies). Per quanto riguarda, invece, le testate nucleari, quelle pachistane sono più numerose: 150 contro 140. Lo Stockholm international peace research institute stima che tra il 1993 e il 2006 il peso della difesa sulle spese governative di Delhi è stato del 12% rispetto a oltre il 20% del Pakistan. È improbabile pensare che lo scontro tra i due stati possa sfociare in una guerra dichiarata. Gli interessi nella regione sono diversi, non da ultimi quelli della Cina che in passato aveva conteso all’India la zona dell’Akesai Chin, nell’area sud-occidentale della prefettura di Hotan, nella regione autonoma dello Xinjiang. I punti di attrito tra le due nazioni sono molteplici: dalla rivendicazione reciproca di alcuni territori, alla non adesione di Delhi alla “Belt and road initiative”, dall’avanzo commerciale cinese nei confronti dell’India alla vicinanza politica e militare di Pechino con Islamabad. Non è un mistero che la Cina sostenga il Pakistan sulla controversia del Kashmir e che, in cambio, il Pakistan sia allineato alla Cina su questioni quali il Tibet, Taiwan e lo Xinjiang. Un comunicato congiunto dopo un incontro tra il presidente cinese e il primo ministro Imran Khan si era concluso con una dichiarazione in cui si affermava che «la Cina stava prestando particolare attenzione all’evoluzione della situazione in Kashimr», auspicando una risoluzione pacifica con l’applicazione della Carta dell’Onu.
LA FUNZIONE ANTI-CINESE
Non è neppure un segreto che gli stessi Stati Uniti e gran parte del mondo occidentale non vogliano un inasprimento del conflitto in Kashmir, perché ciò comporterebbe prendere posizione contro l’India, il gigante asiatico che può opporsi alla crescita dell’influenza cinese. Xi Jinping e Narendra Modi si sono incontrati in Brasile a metà novembre e hanno rinnovato l’impegno a rafforzare i rapporti tra i due stati, soprattutto in materia di investimenti e scambi commerciali. Gli auspici sono di un miglioramento delle relazioni nel 2020, ma la questione del Kashmir rimane irrisolta.
Narendra Modi continua a vedere crescere la propria popolarità in India, le politiche fiscali e la riforma dell’apparato burocratico sono ben accolte dal mondo imprenditoriale, ma l’economia sta rallentando. Il Fondo monetario internazionale ha tagliato le proiezioni del tasso di crescita del Pil dell’India al 6,1% dal precedente 7%. La flessione congiunturale ha aumentato il malessere generale della popolazione, ma è bastato l’attentato dello scorso febbraio a un autobus di militari indiani in Kashmir a fare percepire la questione della sicurezza nazionale come il problema più cogente del paese. Modi ha saputo rispondere con forza a quell’attacco, lanciando missili contro alcune basi militari pakistane e, mostrando i muscoli, si è guadagnato un vasto consenso che gli ha permesso di conquistarsi un secondo mandato. Ora bisogna vedere se il nazionalismo del governo sarà capace, oltre a mantenere il consenso, di rilanciare l’economia del paese, senza cadere in facili populismi che rischiano solo di fare aumentare pericolosamente la tensione in un’area già storicamente instabile.
a cura di Pinuccia Parini
tratto da: https://www.fondiesicav.it/india-e-pakistan-una-guerra-per-ora-fredda/