Ora che l’afa azzanna chi è costretto a rimanere in città, c’è un solo modo per stare al fresco, non nel senso di galera e nemmeno di aria condizionata: ingannare la mente con la lettura, viaggiare con la fantasia alla ricerca di refrigerio. Tra le cime dei monti, per esempio. Così oggi, per la nostra raccolta di vicende noir, si va in Francia, in Alta Savoia, tra tempeste di neve e il sibilare del vento che si insinua nelle gole disabitate. Freddo, ghiaccio e tanta fame alla quale porre rimedio.
Una storia di antropofagia criminale, vecchia di due secoli, che pur avendo i crismi della realtà e dei concretissimi atti processuali, ci porta su un terreno che pare irreale, favolistico, gotico. Del resto sappiamo come quasi tutte le favole nordiche, da Barbablù a Hansel e Gretel, provengano della cronaca nera popolare, quella che passava di bocca in bocca, perdendo via via i suoi tratti concreti e puntuali per diventare mito, strumento per esorcizzare e sublimare le paure derivate dal comportamento umano.
«È la realtà che ispira la fiaba, bellezza, non viceversa».
Ecco, dunque, la vera storia dell’Auberge Rouge di Peyrebeille, parzialmente tratta dal mio ultimo lavoro Food & Crime.

L’Auberge Rouge de Peyrebeille oggi
Il viaggiatore che si trovasse sull’autostrada che da Avignone conduce a nord verso Lione e volesse deviare a ponente per non perdersi i magnifici scenari del parco naturale dell’Ardèche, giungerebbe nel piccolo borgo di Peyrebeille, incontrando, al bordo della strada, una grande cascina in pietra, alta un solo piano, sormontata da un’enorme scritta: «Ici Auberge de Peyrebeille».
Se il turista capitasse in queste zone nel periodo estivo, quando i gelidi venti invernali si sono chetati e la zona diventa un paradiso di colori, potrebbe fermarsi a pochi metri dall’edificio e bere un buon Pernod, seduto sotto un pergolato, circondato da anziani che giocano a bocce e da bambini che scorazzano nella piazzetta. Potrebbe allora capitargli di osservare i ragazzini mentre eseguono una variante locale dei nostri “quattro cantoni”.
Una decina di fanciulli seduti su di un muretto si passano di mano in mano una piccola pietra mentre un altro bimbo, in piedi di fronte a loro, recita un’antica filastrocca, che tradotta suona più o meno così: «All’albergo oggi un gruppo è arrivato, molto stanco e davvero affamato, Jan Rochette il bagaglio ha portato, Pierre Martin il cavallo ha strigliato e Marie il pranzo ha cucinato. I viandanti volevan far festa, ma Pierre Martin gli ha rotto la testa. Col coltello è corso in cucina per annunciare la nuova rapina. Con la pancia hanno fatto salsicce, con le budella hanno fatto paté. All’albergo oggi un gruppo…».
La litania può ripetersi all’infinito, ma quando s’interrompe colui che ha in mano il sasso deve appoggiarlo dove stava seduto e correre dall’altra parte della piazza, senza essere acchiappato.
Sono passati quasi due secoli da quel 2 ottobre 1833 eppure in qualche modo il tempo del borgo si è fermato al giorno in cui un carretto tirato da buoi bardati di nero e scortato da un distaccamento della gendarmeria in gran uniforme, si fermò esattamente in questo spazio.
A bordo due uomini e una donna con vistosi ferri ai polsi: il domestico Jan Rochette, l’albergatore Pierre Martin in compagnia della moglie Marie, anch’essa albergatrice. Di fronte a loro una ghigliottina fatta erigere nella notte e i visi degli eccitati abitanti della vallata, che per nulla al mondo si sarebbero privati dello spettacolo di tre teste che di lì a poco sarebbero rotolate nelle ceste di vimini.

La ghigliottina conservata nel sottotetto dell’albergo
Una volta terminata l’esecuzione, un macabro corteo si era messo pazientemente in marcia per visitare la grande cucina della ex locanda dei Martin, situata ad appena pochi metri di distanza, che da quel giorno sarebbe diventata, nella tradizione popolare e nelle guide turistiche, l’Auberge rouge, l’albergo rosso sangue, un museo del crimine visitabile tutto l’anno.
Al modico prezzo di dieci euro è possibile ancora oggi provare il brivido del delitto, immaginarsi la coppia assassina mentre pianifica ed esegue una strage durata più di vent’anni, osservare quei pentoloni appoggiati sui fornelli, nei quali sono nascosti i più oscuri comportamenti devianti.
Ma cos’era successo per trasformare due locandieri ed il loro servitore, dei quali, come sempre avviene in questi casi, tutti i vicini hanno sempre decantato la gentilezza, in “nemici pubblici del popolo francese”?
La verità, dopo che un incendio ha distrutto parte dei documenti processuali e dopo che la cenere dello scorrere degli anni ha irrimediabilmente intriso i fatti di leggenda, va cercata più nella fame e nelle dispense vuote che nel demonio, spesso evocato da queste parti.
Verso la fine del 1809, anno nel quale fu messo per la prima volta il cartello ouvert a fianco della porta d’ingresso, una terribile carestia si abbatté su questa zona stretta tra il lato ovest delle Alpi e la valle del Rodano, caratterizzata da impervi boschi brutalmente interrotti da orridi e profonde gole. Il lunghissimo inverno e l’incuria degli uomini avevano fatto franare il ponte che univa la strada di Peyrebeille con il sud, unica via d’accesso per le derrate alimentari che provenivano dalla mite Provenza.
Poiché le disgrazie, com’è noto, non vengono mai sole, il gelo aveva irrimediabilmente distrutto l’unica fonte di sostentamento della zona, le castagne che, oltre a fornire materia prima per i marrons glacés dei pasticceri parigini, venivano lavorate in mille e un po’ stucchevoli maniere, per offrire un minimo di sostentamento invernale.
Per i coniugi Martin era diventato quasi impossibile garantire un pasto caldo ai pochi avventori che, infreddoliti e affamati quanto i loro cavalli, si presentavano all’uscio. Ci voleva un miracolo per risollevare le sorti della locanda e questo sembrò arrivare quando una sera, mentre offriva una zuppa di cavolo a dei commercianti tedeschi, capitati per loro disgrazia in loco, parve a Jean Rochette, detto il mulatto per la colorazione più sporca che bruna della sua pelle, di sentir parlare di denaro contante da custodirsi con attenzione durante la notte. La classica lampadina si deve essere accesa nella sua mente.

Jean Rochette in una rappresentazione giornalistica
Quei soldi potevano rappresentare la speranza. Forse era Dio, o se preferite Satana, che dopo aver fatto toccare il fondo, ora indicava la via verso la resurrezione.
Un’occasione da cogliere al volo, prima che le luci dell’alba e gli scrupoli morali illuminassero la stamberga.
Il patto di sangue fu stipulato davanti alle lingue di fuoco prodotte del camino. Delle prime incombenze si sarebbe occupato il muscoloso domestico abituato ad abbattere i vitelli con un colpo secco sull’osso del collo, poi sarebbe intervenuto il buon Pierre, per assicurarsi che i cadaveri scomparissero dalla vista e che nessuno li venisse a reclamare. Bisognava agire senza indugio.
Armato di un pesante bastone, Jean Rochette si infilò nella camera da letto dei tre teutonici che, provati dal viaggio e aiutati da un infuso di erbe soporifere, russavano profondamente. In un attimo i tre viaggiatori si ritrovarono la testa fracassata passando dal sonno alla morte.
Mentre Marie contava i soldi, inutilmente nascosti sotto il materasso, i corpi vennero trascinati in cucina. In un sacchetto c’era un bel gruzzoletto, niente da dire. Monete che avrebbero chetato ogni problema etico e sarebbero state utilissime per superare il periodo di crisi.

La stanza del delitto
Ora bisognava pulire la stanza, gettare i materassi intrisi di sangue, rivestire i malcapitati e accompagnarli con i loro cavalli di fronte al burrone di Lanarce, per poi dargli una bella spinta verso l’oblio.
Quando i tre si ritrovarono con i corpi dei malcapitati distesi sul pavimento si resero conto che il piano presentava delle difficoltà e non sarebbe stato facilissimo uscire con quei fardelli sulla via innevata, che per giunta passava proprio sotto la finestra di un mugnaio facente la funzione di sindaco.
La svolta gastrocriminale venne da Marie. Abituata a far quadrare il magrissimo bilancio familiare, pensò che fosse un vero peccato buttare tutto quel ben di dio per la sola gioia dei lupi e degli orsi, che sempre più spesso accerchiavano l’abitazione nel tentativo di mettere qualche cosa sotto le zanne.
Morti sono morti, tanto vale utilizzarli fino in fondo, deve aver pensato mettendosi all’opera.
La cucina fu trasformata in un macello, i corpi sezionati e lavorati per bene al fine di ricavarne salsicce, bistecche, sanguinacci, stufati e brasati. Nella stalla c’era poi una vera ricchezza alimentare e dato che i tre equini sarebbero stati difficilmente commerciabili senza destare troppi sospetti, fu deciso di abbatterli mescolando le preziose carni a quelle umane, per ingentilirne il sapore.
Nel rispetto della catena alimentare, Marie pensò anche al maiale di casa che avrà senz’altro gradito cibarsi di un po’ di frattaglie, rinviando, per l’improvvisa abbondanza di cibo, il suo incontro con la mannaia.
Le parti non commestibili furono bruciate nel forno utilizzato normalmente per la cottura del pane, senza paura che, in quel deserto, l’acre odore del fumo potesse attirare l’attenzione.

Il forno
Finalmente c’era di che sfamare i nuovi avventori che sembravano apprezzare sempre di più la ricca cucina dei Martin.
Aver scelto degli stranieri si rivelò una mossa vincente e poiché le comunicazioni erano inesistenti ed i pericoli dei viaggi, tra briganti, tormente di neve, crepacci e animali selvatici, erano da mettersi in conto, nessuno fece troppe domande su quelle orme che terminavano proprio davanti all’ingresso dell’Auberge rouge.
Ma prima o poi le provviste finiscono. Quando ci si abitua ad un po’ di benessere è ancora più dura tornare al punto di partenza. La coppia e il loro socio d’impresa ci ragionarono un po’ sopra, studiando i molti pro e i pochi contro che la nuova politica aziendale comportava e presto si convinsero che gli affari potessero proseguire con vantaggio di tutti quanti. Si trattava solo di perfezionare il meccanismo.
Praticarono un buco in un tramezzo di legno comunicante con la cucina al quale applicarono un barattolo di latta che facesse da rudimentale cassa di risonanza e che servisse ad origliare le conversazioni dei clienti seduti a tavola. Prima regola è quella di conoscere bene le potenziali vittime. Da dove vengono? Dove vanno? Hanno soldi con loro? Li aspetta qualcuno? Hanno comunicato dove si sarebbero fermati?
Con pochi accorgimenti e facendo tesoro dell’esperienza migliorarono ulteriormente il progetto. Le vittime andavano scelte tra contadini o fattori provenienti da paesi lontani che si spostavano per acquistare derrate alimentari e bestiame. Più lunga la distanza che avrebbero dovuto percorrere, più ampia l’area d’indagine per parenti ficcanaso o per gendarmi sospettosi.
Gli intraprendenti locandieri pensarono poi ad anticipare di più di un secolo le mosse di Jack Nicholson, nelle vesti dell’allucinato protagonista di Shining, operando solo d’inverno e nelle notti di tormenta, quando nessun testimone si sarebbe presentato alla porta e quando le impronte esterne si sarebbero immediatamente cancellate.

I coniugi Martin e Jean Rochette sul banco degli imputati
Infine, Jean Rochette, sul quale gravava gran parte del lavoro sporco, si concentrò sugli aspetti tecnici, abbandonando il suo bastone per una più pratica scure, che avrebbe reso tutto più rapido e indolore. Poi costruì una sorta di scivolo che, dall’interno di un armadio, permettesse di gettare i corpi direttamente in cucina, senza rompersi la schiena con il trasporto.
Così arrangiata, la filiera del delitto a chilometro zero funzionava egregiamente. Vittime a domicilio, trattamento alimentare in loco e smaltimento dei rifiuti immediato.
Le salsicce di casa Martin andavano a ruba e qualcuno iniziava a domandarsi come facessero a procurarsi, in tempi così duri, tanta ottima materia prima.
Quante persone abbiano trovato la pace eterna nel forno di Peyrebeille, non è dato saperlo. La cifra più ragionevole sembra attestarsi tra le quaranta e le cinquanta vittime, ma né gli storici né il processo furono in grado di stabilirlo con precisione.
Quello che è certo è che gli affari andavano benissimo e la stamberga triplicò la propria dimensione. Dopo pochi anni il pellame, i capelli e gli scheletri avevano impregnato troppo i camini, cosicché si preferì costruire un nuovo sfiato, posto a fianco di quello usato per le incombenze medico legali.

L’Auberge ai tempi dei delitti, la croce indica il punto dove fu montata la ghigliottina.
Invidie e pettegolezzi sui successi dei coniugi non tardarono a farsi sentire. Il più fastidioso era quello di un contadino un po’ pazzerello, che andava in giro a raccontare di aver visto nella cucina un pentolone messo a bollire contenente delle mani umane. Si trattava di fatti talmente fantasiosi che nessuno li prese sul serio e il poveruomo fu minacciato dal Prefetto di gravi conseguenze se avesse continuato a spargere maldicenze sui virtuosi albergatori.
Le attività gastronomiche della brigata criminale proseguirono indisturbate per circa vent’anni. Poi, inevitabilmente, l’errore.
Pierre Martin aveva la febbre del mattone. Non contento delle ragguardevoli dimensioni che aveva raggiunto la vecchia stazione di posta, volle aggiungerci un’ulteriore ala. I ricchi viandanti però, forse a causa delle famose dicerie, iniziavano a scarseggiare e così l’uomo si vide costretto a fare qualche debito. Poco male, prima o poi i soldi sarebbero arrivati. Se non che, il 12 ottobre 1831, per una banale incomprensione tra l’albergatore e il suo domestico, diventato a tutti gli effetti un socio in affari, gli assassini dovettero derogare alla regola di colpire solamente clienti stranieri o almeno provenienti da territori lontani.
Un abitante del circondario, tale Enjorlas, abitante a Saint Paul de Tartas, decise che ne aveva abbastanza dei ritardi di pagamento e si piazzò nell’albergo intenzionato a rimanervi fino a quando i proprietari non avessero saldato il conto. Irremovibile ad ogni sollecitazione, avrebbe finalmente controllato i flussi di cassa, per verificare con mano come il vecchio Pierre Martin lo stesse abbindolando. Mangiò, bevve e poi, stanco, decise che, essendo un creditore coi fiocchi, aveva ben diritto ad una stanza gratis.
Purtroppo il padrone si dimenticò di avvisare Rochette di quella inattesa e sgradita visita e questi, tornato in piena notte dall’osteria, si convinse che fosse giunto il momento di riprendere in mano la scure. Il cadavere ghigliottinato scivolò come di consueto in cucina, ma qualcosa andò storto. Un mendicante, che era stato messo alla porta in malo modo durante quella tumultuosa serata, aveva pensato bene di forzare la persiana e introdursi in cucina per arraffare qualche cosa da mangiare, scolarsi una bottiglia di vino e approfittare del pagliericcio e della stufa per rifocillarsi un po’.
Laurent Chaze, così si chiamava, si trovò in compagnia di un corpo senza testa e presumibilmente senza vita, precipitato per motivi a lui ignoti dallo strano scivolo del soffitto e non la prese bene. Urlando, fuggì dalla finestra per correre a chiamare i gendarmi.

Laurent Chaze depone al processo.
Pierre Martin, svegliato di soprassalto, non poté far altro che tentare di sbarazzarsi di quel fardello prima che i militi giungessero a verificare le fole del pazzo alcolizzato. Corse a prendere un sacco e ci buttò testa e corpo del petulante creditore. Poi lo caricò su un carro partendo al galoppo in direzione del più vicino burrone. Ma evidentemente non era giornata.
Al primo bivio incontrò un certo Fage, che proveniva in senso contrario, rischiando di farlo cadere.
Chi ha mai assistito ad un diverbio automobilistico tra due francesi sa che difficilmente bastano quattro insulti per risolverlo. Immagino che gli scontri equestri non facciano differenza, cosicché al cavaliere parve molto strano che Martin non replicasse agli improperi, ma proseguisse come inseguito dal demonio. Quando Fage vide dei militari in compagnia di uno stralunato mendicante che stazionavano proprio davanti all’albergo, pensò bene di raccontare loro lo strano episodio accorsogli pochi minuti prima.
E così si arrivò al tragico epilogo. Niente più salsicce in casa Martin, solo torpedoni di turisti a caccia di brividi e visite di truppe cinematografiche, come quella che nel 1951 portò in mezzo alle amene vallate dell’Ardèche, il regista Claude Autant-Lara e l’attore Fernandel per realizzare un piacevolissimo film comico liberamente ispirato dalle vicende dell’Auberge Rouge.

Copertine dei romanzi usciti all’epoca
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