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È difficile prevedere come si svilupperà la pandemia in India. I dati ufficiali, per il momento, sono incoraggianti. A metà giugno il paese si collocava al 143° posto per infezioni pro capite, secondo Kaushik Basu, professore di economia alla Cornell University. Ciò che preoccupa, però, è il numero dei casi aumentati vertiginosamente nelle città più importanti come Mumbai, Delhi e Ahmedabad, dove si raccontano storie di persone decedute cui era stato negato un ricovero e un’efficace assistenza. Ma queste sono vicende purtroppo comuni, già riscontrate in molti altri paesi. Le modalità di diffusione del virus variano, in base al livello di urbanizzazione, all’organizzazione sanitaria e alla modalità di interazione a livello sociale, ma, soprattutto, come sostiene Justin Lessler, noto epidemiologo alla Johns Hopkins University, ciò che è fondamentale è che non si generi un rapporto antagonistico tra le autorità e la popolazione, perché si possono avere tutti i mezzi a disposizione per combattere l’epidemia, ma non bastano se i singoli cittadini non sono coinvolti in prima persona.
ESPLODE LA DISOCCUPAZIONE
Questo vale anche in India, dove il lockdown è durato circa due mesi: un blocco che ha comportato anche qui costi importanti. Un’indagine fatta dall’Azim Premji Universitu rivela che otto lavoratori su 10 nei centri urbani e sei su 10 nelle aree rurali hanno perso il loro lavoro durante il blocco del paese. Due terzi si sono trovati disoccupati e chi è riuscito a mantenere il proprio impiego ha visto il salario settimanale decurtato di oltre il 60%. Secondo Il World Economic Forum, ci sono circa 139 milioni di migranti, provenienti soprattutto dall’Uttar Pradesh e dal Bihar, seguiti dal Rajasthan e dal Madhya Pradesh. Mumbai e Delhi sono le città che attirano la maggior parte di queste persone. La International Labour Organization ha stimato che in India, a causa della pandemia e del lockdown, circa 400 milioni di lavoratori saranno colpiti dalla povertà. Il precipitare della situazione ha anche provocato un esodo della manodopera dai luoghi di lavoro alla casa nativa, per il venire meno dei mezzi di sussistenza, e ciò non è certo d’aiuto al contenimento della diffusione del virus.
SCONTRI INTERNI
Ma c’è un altro aspetto che merita di essere tenuto in considerazione: il rischio dell’acuirsi di scontri interni tra le popolazioni delle diverse regioni indiane. Un’analisi di Rikhil R. Bhavnani e Bethany Lacina ,”The Effects of Weather-Induced Migration on Sons of the Soil Riots in India”, sostiene che la migrazione causa conflitti interni, soprattutto se diminuisce il livello occupazionale della popolazione ospitante. I due studiosi, utilizzando i dati provenienti dall’India, hanno trovato una netta correlazione tra il fenomeno della migrazione e lo scoppio delle rivolte.
è quindi necessaria un’azione di coordinamento da parte del governo per mitigare le eventuali frizioni che si possono creare in un territorio quando scoppia una crisi economica. Il punto di domanda è se l’esecutivo si muoverà in questa direzione, viste le molteplici tensioni già presenti in India e che Modi, il primo ministro, non si è molto prodigato a stemperare. C’è la repressione in Kashmir, la discriminazione esplicita contro i musulmani nella nuova legge sulla modifica della cittadinanza, il proposto registro nazionale dei cittadini con l’apparente intenzione di espellere i musulmani che non possono dimostrare il loro diritto a rimanere, come gli immigrati clandestini arrivati dal Bangladesh dal 1971.
LO SCONTRO CON LA CINA
Non va poi dimenticato il difficile rapporto con due paesi confinanti: il Pakistan e la Cina. Lo scontro con quest’ultima all’inizio di giugno, in cui è morta una ventina di soldati indiani, è forse il peggiore dal 1967, quando si registrò una crisi analoga. La lotta riguarda i confini in Himalaya, un’area strategicamente importante, che vede indirettamente interessato anche il Pakistan. Nel 1962, ricorda Brice Riedel, membro del Brookings Institute, docente alla John Hopkins University e già analista alla Cia, ci fu uno scontro nella regione tra Cina e India, da cui quest’ultima uscì sconfitta e perdette la regione Aksai Chin del Ladakh. Per decenni, i due stati hanno gareggiato a costruire infrastrutture per i trasporti per permettere la mobilità delle loro truppe in Himalaya. Oggi, come nel 1962, l’India è militarmente più debole della Cina. Allora il primo ministro, Jawaharlal Nehru, dovette chiedere aiuto a Washington e Londra. Il presidente John F. Kennedy ordinò immediatamente un ponte aereo di armi e forniture in India, cui si unì la Royal Air Force. Ma tutto ciò non bastò e si dovette attendere il cessate il fuoco di Mao per fare arretrare l’esercito cinese, che non abbandonò però le terre occupate ai confini del Ladakh. Oggi, nonostante la simpatia reciproca, pare improbabile una richiesta di aiuto di Modi a Donald Trump e, a differenza di quegli anni, l’India si trova a contendere un territorio alla Cina, diventata nel frattempo alleata del Pakistan, che sostiene anche finanziariamente. Le dinamiche di ciò che è avvenuto a giugno, non sono ancora chiare, ma la cronaca parla di scontri con bastoni e pietre, che hanno provocato circa 20 morti. In quella regione converge l’interesse di tre stati, tutti in possesso di armi atomiche. Rispetto al 1962 la situazione è molto più rischiosa e le frizioni sul confine himalayano rimarranno una costane nel prossimo futuro, con le due grandi economie asiatiche alla continua ricerca di un equilibrio difficile da trovare, fatto di alleanze esterne che possono, a loro volta, creare pressione sull’una o sull’altra: la Cina con il Pakistan e l’India con le altre nazioni asiatiche in contrasto con l’Impero di Mezzo.
Le tensioni internazionali e la pandemia si aggiungono a una situazione economica difficile. Il primo ministro ha annunciato un roboante pacchetto di misure pari al 10% del Pil e un piano di riforme che, sulla carta, risulta significativo. La politica di stimolo si articola in cinque tranche e si concentra sul lavoro, la liquidità e l’agricoltura, rivolgendosi alle micro-piccole-medie imprese, agli artigiani, alla classe lavoratrice e all’industria. Al suo interno sono previsti anche aiuti per i poveri, i lavoratori e i migranti. Oltre alle misure di primo intervento per contenere gli impatti della pandemia, insieme a un pacchetto criticato da alcuni per mancanza di stimolo alla domanda, il governo ha rilanciato il piano di riforme. Quest’ultima decisione è un segnale forte e, proprio perché proposto in un contesto emergenziale, esprime la volontà di intervenire sì a sostegno dei redditi e delle attività economiche, senza però dimenticare che occorrono cambiamenti strutturali perché le misure possano avere un impatto nel tempo.
GERMOGLI DI RIFORME
Gautam Chikermane, vicepresident alla Observer Research Foundation e senior research fellow presso Ispi, parla di «germogli» di riforme reali che stanno spuntando, di cui l’India ha estremo bisogno, soprattutto in materia di governance. Lo studioso identifica tre settori chiave: il governo dell’Unione, i governi statali e la magistratura. Chikermane sostiene che, per parlare di grandi riforme in India, bisogna tornare al 1991, quando iniziò il processo di liberalizzazione dell’economia. Furono gli anni del primo ministro Narasimha Rao e del ministro delle finanze Manmohan Singh che, dopo la crisi della bilancia dei pagamenti, segnarono la svolta epocale del paese di entrare a fare parte dell’ordine economico internazionale. Fu grazie a quanto venne deciso e avviato allora che l’India conobbe anni di grande crescita. Modi ha portato avanti sì alcune riforme, ma non della portata di quanto avvenne con il governo Rao, anche se sono importanti l’introduzione della tassa sui beni e servizi, il codice fallimentare indiano e il JamYojana, l’iniziativa che ha permesso di collegare i conti bancari ai non bancati (an Dhan) con l’identità di una persona, utilizzando la carta di identità Aadhaar attraverso un telefono cellulare. Inoltre, la “demonetization” del 2016 ha creato una serie di problemi che hanno pesato molto sul tessuto economico e sociale.
CONTRADDIZIONE DI FONDO
Ciononostante, il discorso di Modi del 12 maggio 2020 ha alimentato le aspettative di una nuova importante svolta. Traspare tuttavia una contraddizione di fondo: da un lato il governo rimarca la necessità che il paese diventi autosufficiente, dall’altro vorrebbe attirare più investimenti esteri, sempre sotto la supervisione del Ministero dell’industria e del commercio, sottraendoli magari alla Cina. Sicuramente la pandemia ha indotto tutti gli stati coinvolti a riflettere su come riorganizzare la catena di approvvigionamento e la produzione in loco di alcuni beni, aprendo così da un lato la strada alla diversificazione geografica delle attività off-shore e, dall’altro, al rafforzamento delle imprese presenti sul territorio. L’India ha la possibilità di ritagliarsi un ruolo da protagonista in questa fase, ma manca ancora delle infrastrutture perché ciò sia reso possibile e, soprattutto, deve abbattere gli interessi di parte che ostacolano lo sviluppo delle attività. In questo senso si colgono segnali incoraggianti, sottolinea Gautam Chikermane, che cita come esempio la recente approvazione dell’emendamento all’Essential commodities act del 1955, in base al quale alcuni prodotti alimentari, come cereali, oli commestibili, semi oleosi, legumi e patate saranno liberalizzati, salvo «circostanze eccezionali come le calamità o le carestie nazionali». Ciò va nella direzione di rendere il mercato più libero ed efficiente, rimuovendo gli impedimenti alla creazione di infrastrutture di stoccaggio da parte dei privati, al potenziamento della catena del valore agricola e allo sviluppo del mercato nazionale delle commodity agricole.
RATING IN RIBASSO
Ma i problemi dell’India, il cui rating è stato recentemente rivisto al ribasso dalle tre maggiori agenzie a una tacca sopra il livello di spazzatura, riguardano anche un paese che, nell’ultimo anno, ha visto l’economia dare segnali di cedimento, con un netto deterioramento del mercato del credito e del sistema finanziario. La cattiva gestione degli impieghi e la mancanza di governance hanno quasi fatto saltare Infrastructure Leasing and Financial Services, uno dei colossi dei servizi finanziari e sviluppatore di infrastrutture, cui hanno fatto seguito alcuni pesanti fallimenti, come quello di Yes Bank, uno dei più importanti istituti indiani oggi sotto l’amministrazione controllata della Reserve Bank of India; il fondatore è stato accusato di riciclaggio. C’è il rischio che possano emergere molti casi di insolvenza, sia tra i consumatori, sia tra le imprese e il governo dovrà decidere come gestire anche questa crisi. Tante sfide all’orizzonte per Modi che, per essere affrontate, necessitano anche di un cambiamento di fondo nel guardare al paese nel suo complesso, puntando a una crescita inclusiva, che unisca la nazione e non la divida. E questo, per il primo ministro, è un passo difficile da compiere, ma necessario.
a cura di Pinuccia Parini
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