L’indicatore Buffett raggiunge i massimi di sempre

Uno degli indicatori borsistici più noti è il Buffett Indicator, non fosse altro perché ideato da Warren Buffett. Egli stesso lo definì “probably the best single measure of where valuations stand at any given moment”. Di fatto è un indicatore che cerca di indicare se i mercati finanziari azionari siano sopravvalutati o meno, un’informazione sempre preziosa.

Di fatto il suo calcolo è molto semplice e rapporta la capitalizzazione complessiva di un listino azionario al GDP del paese che si sta analizzando. L’idea è quella di fornire un dato di facile lettura per comprendere se il listino oggetto della riflessione sia più o meno caro.

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Il suo valore viene espresso in percentuale e normalmente ci si attende che non sia molto al di sopra del 100 %. La fonte da cui abbiamo tratto questa slide ha calcolato che il primo di luglio 2021 l’indicatore valeva ben 234 %, come riportato nella slide successiva:

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In poche parole, essendo un indicatore che mette a confronto la capitalizzazione di borsa con la crescita, dell’economia reale, è un po’ come se cercasse di capire se questi dati positivi siano già compresi o meno nelle attuali valutazioni.

Come si evince dal grafico e dal commento siamo di fronte a dati e a numeri eccezionali rispetto alla storia e alla statistica anche se non ci è dato di sapere se i grandi interventi in termini di liquidità iniettata dalle banche centrali di tutto il mondo nei mercati finanziari possano in qualche misura aver alterato lo standard e reso meno fruibile l’indicatore.

Wikipedia commenta così la costruzione dell’indicatore:

Buffett ha riconosciuto che la sua metrica era semplice e quindi aveva alcuni limiti, tuttavia la base teorica sottostante per l’indicatore, in particolare negli Stati Uniti, è considerata ragionevole. 

Ad esempio, gli studi hanno mostrato una correlazione annuale decisamente forte e coerente tra la crescita del PIL degli Stati Uniti e la crescita degli utili aziendali degli Stati Uniti, e che è aumentata dopo la Grande Recessione del 2007-2009.  Il PIL cattura gli effetti in cui i margini di un dato settore aumentano materialmente per un periodo, ma anche l’effetto della riduzione dei salari e dei costi, smorzando i margini in altri settori. 

Gli stessi studi mostrano una scarsa correlazione annuale tra la crescita del PIL statunitense e i rendimenti azionari statunitensi, sottolineando la convinzione di Buffett che quando i prezzi delle azioni supereranno i profitti aziendali (tramite il proxy PNL/PIL), seguiranno scarsi rendimenti. L’indicatore è stato anche sostenuto per la sua capacità di ridurre gli effetti della “contabilità aggressiva” o degli “utili rettificati”, che distorcono il valore degli utili aziendali nelle metriche del rapporto prezzo/utili o del rapporto EV/EBITDA ; e che non è influenzato dai riacquisti di azioni, che non influiscono sui profitti aziendali aggregati.

L’indicatore Buffett è stato calcolato per la maggior parte dei mercati azionari internazionali con alcune cautele poiché altri mercati possono avere composizioni meno stabili delle società quotate (ad esempio la metrica dell’Arabia Saudita è stata materialmente influenzata dalla quotazione 2018 di Aramco ) o un maggiore/minore peso tra imprese private rispetto a quelle pubbliche (ad esempio tra Germania vs Svizzera). Quindi i confronti tra i mercati internazionali che utilizzano l’indicatore come misura comparativa della valutazione non sono sempre del tutto appropriati.

L’indicatore Buffett è stato calcolato inoltre anche per i singoli settori anche se non risulta rilevante per fare confronti intersettoriali.

Interessanti sono poi le riflessioni sul numeratore scelto per calcolare l’indicatore.

Vi proponiamo una serie di link che vi consentiranno di rimanere aggiornati sull’evoluzione dell’indicatore.

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In questo primo caso è stato scelto per il calcolo un indice che raggruppa 5000 aziende quotate, il Wilshire 5000 Total Market Index, che è comunemente ritenuto uno degli indici più ampi e più rappresentativi del listino americano.

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In questo secondo caso è stato preso invece in esame il Dow Jones che ha caratteristiche molto diverse dal Wilshire e che, come sappiamo, è composto da 30 sole aziende; soprattutto il Dow è calcolato ponderando le aziende per il loro prezzo. Eppure, nonostante queste differenze non trascurabili, il suo andamento risulta molto simile al precedente.

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Il terzo caso vede protagonista lo SP500, il noto indice composto da 500 titoli azionari (per la verità sono 505 perché 5 aziende vengono quotato con due differenti tipologie di azioni) ponderati per la loro capitalizzazione. Siamo di fronte dunque ad un indice rappresentativo del listino ma anche in questo caso le informazioni che raccogliamo non cambiano di molto rispetto alle precedenti.

Allargando l’attenzione agli altri paesi scopriamo che gli Stati Uniti non sono da soli, per lo meno utilizzando questa tipologia di indicatore.

In The Big Bang: Stock Market Capitalisation in the Long Run, degli autori Dmitry Kuvshinov e Kaspar Zimmermann, sono pubblicati una serie di grafici molto simili, tenuto anche conto che non ci sembrano aggiornati:

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In questo testo c’è uno studio ampio ed approfondito che prende in considerazione le molte variabili che incidono sugli andamenti borsistici sempre però partendo dal rapporto capitalizzazione di borsa / GDP. Lo studio copre ben 17 economie avanzate tra gli anni 1870 e 2016.

L’indagine rivela due ampie epoche di crescita del mercato azionario: il periodo prima degli anni ’80, durante il quale il mercato azionario è cresciuto allo stesso tasso di lungo periodo del PIL e questa crescita è stata guidata dall’emissione di azioni; e il periodo dopo gli anni ’80 durante i quali la crescita della capitalizzazione accelerò ben oltre quella del PIL, trainata da forti e persistenti aumenti dei corsi azionari in un momento di rallentamento delle emissioni.

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Lo studio mostra che il fattore chiave degli aumenti della capitalizzazione di mercato successivi agli anni ’80 è il profitto che si allontana dalle aziende non quotate verso le società quotate. Questo spostamento di profitto è guidato da un aumento dei margini di profitto ed è stato aiutato dalla diminuzione degli interessi passivi e delle imposte sulle società.

Oggi come oggi però non è detto che l’operato delle banche centrali possa aver determinato un nuovo driver.

Abbiamo provato anche ad usare il sito interattivo della Federal Reserve di St. Louis, includendo tutte le attività possibili e già nel 2020 si vede che l’indicatore vale un 50 % in più dei valori massimi raggiunti nel 2000.

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Il punto alla fine però pensiamo sia sempre il solito. La gestione post-crisi 2008 ha di fatto complicato l’utilizzo di qualsiasi parametro legato ai fondamentali, stravolgendo in parte le precedenti regole.  Si tratta quindi di una scelta di campo, tra accordare fiducia infinita alle banche centrali seguendo ciecamente il comportamento operativo oppure scegliere la strada dell’analisi e anticipare momenti che arriveranno quando arriveranno.

Di certo questo indicatore ci invita alla prudenza e all’attenzione, anche se alla prudenza e all’attenzione alcuni economisti ci invitano da anni, in un mercato che di fatto è sempre e solo salito, tranne rari casi di brevi e limitate flessioni sulle quali alla fine è sempre stato premiante fare nuovi acquisti e incrementare la posizione. Per quanto questo possa durare non è dato saperlo, ma gli ultimi decenni ci dicono anche che vivere in attesa di un crollo che riporti in equilibrio i fondamentali potrebbe rivelarsi una strategia perdente.

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