Myanmar, un inferno nell’indifferenza del mondo di Pinuccia Parini

Lo scorso 1° febbraio, i militari del Myanmar hanno arrestato la consigliera di stato Aung San Suu Kyi, il presidente Win Myint e altre figure di spicco della Lega nazionale per la democrazia (Nld).

Insieme a loro sono stati fermati i leader di diversi partiti e attivisti di minoranze etniche. Il colpo di stato ha impedito la prima convocazione del nuovo parlamento del paese, eletto a novembre. Tutte le linee telefoniche e internet sono state interrotte, con l’esercito che ha denunciato dalle Tv occupate la scoperta di frodi elettorali e ha dichiarato lo stato di emergenza.

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Dopo avere ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito nel 1948, il Myanmar, una volta conosciuto come Birmania, è stato governato dalle forze armate dal 1962 al 2010, data in cui è iniziata una nuova fase che ha ripristinato gradualmente un governo civile. Già nel 1990, l’Nld aveva vinto le elezioni, ma i militari si erano rifiutati di riconoscere il risultato. Bisognerà attendere il 2015, dopo cinque anni di graduale passaggio da un regime militare a uno democratico, per vedere il partito vincere la consultazione elettorale e diventare forza di governo, con a capo Aung San Suu Kyi. Questo processo è stato bruscamente e inaspettatamente interrotto, nonostante la schiacciante vittoria elettorale nel 2020 del Nld. Attualmente il governo è nelle mani dell’esercito: Aung San Suu Kyi è stata deposta con una serie di capi d’accusa tra cui l’importazione illegale di walkie-talkie e l’organizzazione di una protesta durante la pandemia. Posta agli arresti domiciliari, la ex-leader sarà presto processata.

 

Una situazione complessa

La situazione in Myanmar è alquanto complessa, risultato di un processo di transizione a un modello democratico che presenta fragili fondamenta e si scontra con un potere dell’esercito che è stato presente e protagonista nella storia della nazione dalla sua dichiarazione d’indipendenza. C’è chi sostiene che la democratizzazione della nazione sia stata solo di facciata: i militari hanno sempre continuato a tirare le fila del paese, avallati anche dalla costituzione. In sostanza, si è assistito a una diarchia: le forze politiche da un lato, che hanno accettato la presenza incombente dei militari, questi ultimi dall’altro, con un potere sempre più minacciato dal governo in carica. Questo aspetto è emerso con veemenza quando, nelle elezioni del 2020, l’Nld ha raggiunto un consenso superiore a quello registrato nelle precedenti consultazioni: il partito ha conquistato 396 dei 476 seggi, cioè l’83% del totale rispetto al precedente 70%. L’Union Solidarity and Development Party (Usdp), sostenuto dai militari, ha invece vinto solo 33 seggi, una sconfitta cocente, vista la forte convinzione che l’Ndl avrebbe perso terreno. L’esercito ha subito dichiarato brogli elettorali e chiesto che ci fosse un riesame della situazione. La commissione elettorale interna, insieme agli osservatori locali e internazionali, ha ripetutamente respinto le accuse. La tensione si è così gradualmente acuita, tanto da rendere vano qualsiasi tentativo di mediazione da parte di Aung San Suu Kyi e altri alti funzionari governativi: il risultato finale è stato il precipitare della situazione sino agli eventi degli ultimi mesi.

 

C’è chi sostiene che il colpo di stato sia stato voluto da Min Aung Hlaing, comandante in capo delle forze armate della Birmania dal 2011 e, dal 1º febbraio 2021, presidente del Consiglio di amministrazione dello stato, dopo la destituzione di Win Myint, per ambizioni personali. È difficile decidere se dare o meno credito a tale ipotesi, perché ciò significherebbe riconoscere implicitamente che l’esercito è stato strumentalizzato da uno dei suoi capi, per altro sulla via del pensionamento obbligatorio. Certamente stupisce la scarsa percezione, da parte dei militari, di capire il sentiment del paese e nel pensare che il consenso nei confronti di Aung Suu Kyi fosse in declino.

 

Costituzione da rivedere

Probabilmente ci sono più fattori da prendere in considerazione, a partire dal fatto che, dal 2015, i rapporti tra Min Aung Hlaing e Aung San Suu Kyi hanno conosciuto molte tensioni, soprattutto nel tentativo di trovare un equilibrio d’interessi e di spazi comuni da condividere. Non va infatti dimenticato che la costituzione del paese, redatta nel 2008 dallo stesso esercito, prevede la presenza di tre dei suoi rappresentanti all’interno dell’esecutivo, rispettivamente come capo degli interni, della difesa e del controllo delle frontiere, e garantisce loro un quarto dei seggi in parlamento. L’Nld non ha mai celato la volontà di rivedere il testo costituzionale, soprattutto per rimuovere le garanzie riconosciute alle forze armate, e ciò ha provocato molti malumori tanto che nel 2017, U Ko Ni, braccio destro della consigliera e persona cui era stato affidato il dossier per riscrivere la costituzione, è stato brutalmente ucciso e i mandanti dell’efferato crimine sono rimasti ignoti.

 

Il difficile rapporto tra Min Aung Hlaing e Aung San Suu Kyi non è migliorato neppure quando la consigliera di stato, in risposta alle accuse di genocidio nei confronti dei rohingya, ha difeso l’operato dei militari di fronte alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja, nonostante l’impegno preso di mettere sotto inchiesta coloro che si erano macchiati di violenza contro l’etnia. Tra i colpevoli potrebbe ricadere lo stesso Min Aung Hlaing, già denunciato al tribunale internazionale per i diritti umani. Ed è forse stata proprio questa minaccia ad avere provocato, tra le altre ragioni, la reazione dei militari e portato al colpo di stato.

 

Il nodo Rohingya

La questione dei rohingya è costata cara a Aung San Suu Kyi, premiata nel 1991 con il Nobel per la pace, soprattutto in termini di reputazione all’interno della comunità internazionale: Amnesty International nel 2018 le ha ritirato la carica di ambasciatrice e nel 2020 anche l’Europa ha rimosso la leader dalla “comunità del Premio Sakharov”. I rohingya sono un tema scottante per il Myanmar. Questa popolazione, di fede musulmana, risiede principalmente nella parte nord dello stato di Rakhine e fa parte degli strati più poveri del Paese. Per diversi anni, l’etnia è stata oggetto di attacchi violenti da parte della maggioranza di Rakhine, di religione buddista: la sua gente ha subito uccisioni, attacchi ed è stata costretta anche ad abbandonare le sue abitazioni, per riversarsi in campi profughi sovraffollati con condizioni di vita disumane. Il governo non ha riconosciuto loro, come ad altri gruppi presenti sul territorio, la cittadinanza e i diritti fondamentali degli altri cittadini birmani: dalla proprietà privata, alla libertà di movimento. Vivono in comunità assimilabili a campi profughi sovraffollati e sono privati dell’accesso a cure mediche e all’istruzione.

 

Ulteriori elementi di probabile frizione tra l’Nld e l’esercito sono i negoziati che Aung San Suu Kyi ha condotto con alcuni gruppi etnici, responsabili di una lunga guerra civile nel Paese, che si sono detti pronti a cessare ogni conflitto in cambio di un ordinato processo per portare il Myanmar a diventare una confederazione. Per la leader è stata una grande vittoria politica, per i militari una minaccia di contenimento della propria area di influenza nel paese. Il golpe non solo farà arenare le discussioni in merito, ma rischia di dissuadere altri gruppi etnici a sedersi intorno a un tavolo.

 

Il ruolo delle forze armate

È comunque limitante spiegare la situazione attuale con il deterioramento dei rapporti tra l’ambizioso generale e la consigliera di stato, in un paese dove il ruolo dei militari è stato storicamente fondamentale. In qualsiasi caserma del Myanmar c’è la scritta “l’esercito è il padre e la madre di ogni birmano” e lo stesso padre di Aung San Suu Kyi era un generale. La relazione tra popolazione ed esercito è molto stretta, soprattutto in una nazione multietnica, dove il ruolo delle forze armate è sempre stato garantire l’unità nazionale. Inoltre, sembra che il golpe sia avvenuto senza il consenso unanime dei militari, quasi a dimostrare che alcune crepe si potrebbero aprire nella granitica decisione di spodestare una leadership che aveva ottenuto un così elevato consenso alle elezioni (rif. Ispi- Myanmar: L’ora del golpe).

 

Ciò che sta succedendo in Birmania è molto grave e i recenti scontri con i manifestanti gettano ancora più pesanti ombre sul futuro. La storia della Birmania è caratterizzata da guerre e da colpi di stato in una regione, quella del sud-est asiatico, che presenta caratteristiche non dissimili. Dal punto di vista geopolitico, è in una posizione importante, trovandosi in mezzo a due grandi potenze economiche: la Cina da un lato e l’India dall’altro, entrambe molto attente alle influenze reciproche nella regione. Inoltre, non vanno ignorati il contesto generale del Sud-Est asiatico e la precarietà della democrazia nella regione, Thailandia in testa.

 

L’ambiguità della Cina

Quali saranno i prossimi sviluppi? La Birmania seguirà l’esempio della vicina Thailandia, con i militari al potere e le proteste in piazza? E, oltre la condanna da parte del consiglio di sicurezza dell’Onu, quali potrebbero essere le reazioni della comunità internazionale? Un embargo per la vendita di armi al Myanmar potrebbe avere un ampio consenso? Quale sarebbe la reazione della Cina che ne è il primo paese fornitore? All’indomani del colpo di stato alcuni oppositori hanno accusato Pechino di essere stata messa a conoscenza del piano dell’esercito e di avere in qualche modo sostenuto i militari, creando anche un firewall per bloccare l’utilizzo di internet. La Cina ha fermamente respinto le accuse ed è probabile che la sua fredda reazione alla notizia del golpe birmano rifletta semplicemente il consueto atteggiamento del paese: non farsi coinvolgere nelle dinamiche di un’altra nazione. Ciononostante, il “Dragone” è forse lo stato che ha maggiori possibilità di esercitare pressione sui militari birmani. Da un punto di vista economico, la “Terra di mezzo” è il primo partner commerciale del Myanmar, che è anche uno dei paesi toccati dal progetto “Belt and Road Initiative” e il secondo investitore dopo Singapore. È proprio questa vicinanza che preoccupa soprattutto il Giappone, anch’esso uno tra i maggiori investitori in Birmania e ivi impegnato in progetti di cooperazione allo sviluppo. Tokyo ha chiesto il ripristino del precedente governo democratico, ma sembra che una delle sue maggiori preoccupazioni sia che la longa manus della Cina aumenti la sua presenza sul suolo birmano. Il Giappone gioca un ruolo non trascurabile nella regione, soprattutto come promotore di un’area Indo-Pacifico libera e aperta ma, probabilmente, solo per quanto riguarda le questioni di carattere commerciali e non per i diritti civili. L’impressione è che anche i paesi Asean, al di là delle tiepide parole, non tradurranno la condanna di quanto è avvenuto in Myanmar in vere e proprie sanzioni. I paesi occidentali potrebbero assumere posizioni molto più dure, ma con un effetto che rischia di essere decisamente contenuto, visto che l’80% dell’interscambio birmano avviene con il continente asiatico.

 

La situazione rimane altamente conflittuale: le proteste continuano così come la repressione da parte dell’esercito. Si sta assistendo a una guerra civile che la giunta sembra avere dichiarato contro il proprio popolo, per parafrasare quanto commentato dal relatore speciale dell’Onu (Tom Andrews). Tocca ai birmani trovare una strada di mediazione e mitigazione dei conflitti, per non compromettere ulteriormente l’equilibrio della nazione, dove convivono con difficoltà molte etnie.

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