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Huawei è uno dei giganti mondiali delle telecomunicazioni e opera all’interno dei vari segmenti del settore: dai telefoni cellulari ai computer, dai tablet agli apparati per networking e telecomunicazioni. Per quanto riguarda il mercato degli smartphone, nel 2018 l’azienda cinese ha superato Apple, in termini di market share, insediandosi al secondo posto nella classifica mondiale dei produttori. In base ai dati di Gartner, nel 2019 Huawei ha registrato un aumento annuo complessivo del 18,6%, conquistando il 15,6% del mercato globale e il 37% di quello domestico. Da quando si è acuito lo scontro tra Usa e Cina, l’azienda è entrata nell’occhio del ciclone per la tipologia dell’attività che svolge e per la delicatezza del settore di appartenenza, strettamente legato a temi quali la sicurezza di un paese. Osteggiata da più governi, accusata di essere la longa manus di Pechino nel mondo, ha visto addirittura gli Usa inviare una richiesta di estradizione al Canada indirizzata alla sua direttrice finanziaria, Meng Wanzhou, figlia del fondatore dell’azienda, Ren Zhengfei, per violazione dell’embargo nei confronti dell’Iran. Il caso Huawei non è però una questione di natura commerciale e neppure tecnologica, bensì di mero potere.
LA STORIA DELL’AZIENDA
L’azienda è stata fondata dall’attuale presidente Ren Zhengfei. Ren nacque nel 1944 nella Cina meridionale in una famiglia povera di sette figli in un paese indigente che si avvicinava alla fine del conflitto sino-giapponese per poi ripiombare nella fase finale della guerra civile che portò il Partito comunista cinese alla guida del paese. Le difficili condizioni di vita e lo scoppio della rivoluzione culturale spinsero Ren, nel 1972, a entrare nell’esercito, ove ricoprì il ruolo di ufficiale di basso rango del People liberation army (Pla), per operare poi, in qualità di tecnico, in un’azienda militare e diventare ingegnere edile. La decisione alla fine degli anni ’70 di Deng Xiaoping di ridimensionare il peso dell’esercito all’interno degli organismi pubblici e nazionali, indusse Ren a lasciare il ruolo sino ad allora ricoperto e a iniziare, come imprenditore, una nuova attività nel settore elettronico. Era il 1983 e, dopo cinque anni, avrebbe fondato Huawei Technologies, con lo scopo di vendere apparecchiature di telecomunicazione al mercato rurale cinese. Dalla commercializzazione alla produzione in proprio: nei primi anni ‘90 la società vinse un contratto governativo per la fornitura di apparecchiature di telecomunicazione per il Pla. Nel 1996 Huawei ricevette lo status di “campione nazionale” cinese, che implicava l’estromissione della concorrenza straniera.
Dopo pochi anni, la società cominciò a crescere nei mercati internazionali e nel 2005 il fatturato estero superò quello domestico, cui fecero seguito anni di forte espansione. I ricavi di Huawei del 2019 sono stati 858,8 miliardi di yuan (circa 123 miliardi di dollari), con un incremento del 19,1% rispetto a 2018 nonostante le sanzioni Usa. Nel primo semestre del 2020 l’incremento è stato del 13,1% su base annua e il margine di profitto è cresciuto del 9,2%, in miglioramento dall’8,7% del 2019, pur persistendo in alcuni paesi il divieto di acquisto delle attrezzature dell’azienda e soffrendo per il calo delle vendite di smartphone a causa della pandemia.
Huawei, nonostante le dimensioni raggiunte, è un’azienda privata nelle mani dei suoi dipendenti. Nel 2019, Ren Zhengfei risultava detenere una quota dell’1,4% della società, mentre il restante era distribuito tra 80 mila salariati (rispetto ai complessivi 194 mila). In Cina, poiché la legge limita il numero di azionisti in un’azienda, la holding di Huawei utilizza una struttura che sottopone il 99% delle sue azioni al controllo di un “Comitato sindacale” e non ai dipendenti. Ciò non significa, secondo quanto dichiarato da Jiang Xisheng (https://www.huawei.com/en/facts/voices-of-huawei/jiang-xisheng-interview-with-international-media), segretario del consiglio di amministrazione dell’azienda, che Huawei sia controllata dal governo, visto che in Cina tutti i sindacati ufficiali sono sotto la supervisione della Federazione cinese dei sindacati, un organo del Partito comunista.
IL DISSIDIO USA-CINA
La continua espansione di Huawei è proseguita nonostante lo scontro ormai frontale tra Stati Uniti e Cina che, nonostante i tentativi di mediazione, non sembra arrestarsi. Non ha sicuramente aiutato a stemperare le tensioni la legge cinese sull’intelligence di tre anni fa, dove si afferma che le organizzazioni devono sostenere, cooperare e collaborare per raccogliere informazioni che siano di interesse nazionale. Huawei ha sempre respinto qualsiasi accusa di spionaggio per conto del governo di Pechino, ma alcune indagini portate avanti da paesi stranieri hanno identificato difetti, sia nel software, sia nella sicurezza informatica della società cinese. Huawei è stata accusata da aziende quali Cisco, Nortel e Motorola di avere sottratto segreti commerciali.
L’avvento del 5G vede la società cinese come quella meglio posizionata per beneficiare degli investimenti che saranno fatti per realizzare la nuova rete. Il rischio, secondo alcuni, è che attraverso la tecnologia 5G di Huawei la Cina possa fare operazioni di spionaggio, e non solo a livello industriale, nei diversi paesi in cui è presente. Agli Usa, Australia e Nuova Zelanda si è di recente allineato il Regno Unito che, rivedendo la posizione assunta in precedenza, ha deciso di escludere Huawei dalla fornitura di apparecchiature per la realizzazione della rete 5G. Secondo l’agenzia Reuters, Telecom Italia (Tim), lo scorso luglio, avrebbe estromesso la cinese Huawei Technologies dalla gara d’appalto per apparecchiature 5G per la rete che si sta preparando a costruire in Italia e in Brasile. Ma la guerra contro Huawei rischia di diventare di trincea, perché la società cinese, di fronte alle pressioni americane sui fornitori di componentistica di eliminarla dalla lista dei loro clienti, ha già provveduto a modificare la sua catena di approvvigionamento, aumentando la presenza di produttori asiatici.
UNA LOTTA PER LA SUPREMAZIA
Quando Xi Jinping divenne presidente della Repubblica popolare cinese fece un discorso molto chiaro ed esplicito dove affermò che la missione della Cina non era aderire a un ordine mondiale voluto dagli Stati Uniti, bensì crearne uno che con quest’ultimo potesse rivaleggiare. Lo ha ricordato Mike Brown, direttore della Difense innovation unit, in una tavola rotonda tenutasi lo scorso 8 maggio al Brookings institute intitolata “Global China-Assessing China’s technological reach in the world” (https://www.brookings.edu/events/webinar-global-china-assessing-chinas-technological-reach-in-the-world/). Per Mike Brown l’obiettivo di Xi Jinping è che la Cina non solo raggiunga il livello tecnologico americano, ma lo superi. Ormai è impossibile controllare l’ascesa dell’Impero di mezzo e ripetere ciò che gli Usa fecero nei confronti dell’ex-Unione sovietica, quando il 75% del Pil mondiale era americano. L’unico modo possibile per contrastare l’ascesa della Repubblica Popolare è fare in modo che gli Stati Uniti aumentino la competitività, la produttività e il livello di innovazione che possano sostenere la loro crescita. Ma ciò che Brown ritiene ancora più importante è riformare il modo di fare business e il mercato dei capitali, assumendo un’ottica strategica di lungo periodo. La scelta di fondo, quindi, è come contrastare un fenomeno che risulta per il momento inarrestabile senza adottare misure dall’effetto immediato, che rischiano di avere risvolti collaterali ancora più dannosi. La crescita tecnologica della Cina non riguarda solo il settore delle telecomunicazioni: basta guardare i progressi fatti nell’industria aerospaziale, nell’intelligenza artificiale e nella biotecnologia. In quest’ultimo ambito, ad esempio, gli Stati Uniti erano il player dominante dalla fine degli anni ’60 agli inizi dei 2000. Oggi la Cina mina l’egemonia americana e per comprenderne l’impegno, come rimarca Scott Moore, direttore del China program with Pen global alla University of Pennsylvania, basterebbe notare che la biotecnologia pesa il 4% del Pil cinese contro il 2% di quello americano. Certo, le cifre sono influenzate dalla recente pandemia, ma il dato mostra chiaramente che, in un contesto di maggiore distensione, si potrebbe aprire una fruttuosa collaborazione in questo campo tra le superpotenze per cooperare nella lotta contro fenomeni che rischiano di minare l’esistenza della stessa umanità. Ma così non sta avvenendo.
MISURE SEMPRE PIÙ DURE
La guerra commerciale tra Usa e Cina continua, con misure sempre più dure, quali chiusure di consolati, e continue accuse di spionaggio. L’escalation è tale che sembra non sia il caso Huawei o di altre società tecnologiche cinesi incluse nella black list americana a causare questa recrudescenza. A fine luglio il segretario di stato americano, Mike Pompeo ha affermato: «Credevamo che coinvolgere la Cina avrebbe generato un futuro di cooperazione. Oggi siamo qui a indossare maschere e a fare il conteggio dei morti della pandemia perché il Partito comunista cinese ha tradito le sue promesse. Siamo qui a seguire gli sviluppi della repressione a Hong Kong e nello Xinjiang. Osserviamo le tremende statistiche sul commercio estero cinese che ha colpito la nostra occupazione e le nostre aziende. Seguiamo le forze armate della Cina che diventano sempre più potenti e minacciose».
È difficile capire quanto siano fondate le accuse contro Huawei e altre aziende cinesi, soprattutto in quelle realtà dove c’è stata una forte presenza dello stato o dove il governo ha fornito forme di sussidio per permetterne l’espansione, a discapito di una sana competizione sui mercati. Occorre che da questo punto di vista sia fatta chiarezza, perché un’accusa non circostanziata crea conseguenze non volute che si espandono a cerchi concentrici. Ci sono poi gli interessi politici, che diventano ancora più evidenti in prossimità di un confronto elettorale.
Attualmente Meng Wanzhou rimane al momento in Canada in attesa di essere estradata negli Stati Uniti. È ai domiciliari, ma con la possibilità di condurre una vita piena con ampi spazi di libertà. I due canadesi arrestati per spionaggio in Cina alla fine del 2018, dopo 18 mesi di carcere saranno processati per avere messo in pericolo la sicurezza nazionale, con un iter che solleva qualche perplessità sulla sua trasparenza. Lo scontro tra Usa e Cina continua; non si sta assistendo solo a una guerra commerciale, ma a uno scontro tra due ordini mondiali dove, probabilmente, sarà lo sviluppo tecnologico e scientifico che determinerà di chi sarà l’egemonia futura.
a cura di Pinuccia Parini
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