Taiwan, la guerra dei chip di Pinuccia Parini

“Chip War” è un libro scritto da Chris Miller, professore associato di storia internazionale presso la Fletcher School della Tufts University, nel quale si affronta il conflitto in atto tra Stati Uniti e Cina per il controllo della produzione dei microprocessori più avanzati. L’opera, che nel 2022 è stata premiata dal Financial Times come il business book dell’anno, è un resoconto epico della battaglia decennale per il controllo di quella che è emersa come la risorsa più critica del mondo: la tecnologia dei microchip, con Stati Uniti e Cina sempre più in conflitto. 

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Il nuovo petrolio

Alcuni saranno sorpresi di sapere che i microchip sono il nuovo petrolio, la risorsa scarsa da cui dipende il mondo moderno. Oggi, il potere militare, economico e geopolitico è costruito su una base di chip per computer. Praticamente tutto, dai missili alle microonde, dagli smartphone al mercato azionario, si basa sui semiconduttori. Ora, come rivela “Chip War”, la Cina, che spende più soldi per importare semiconduttori rispetto a qualsiasi altro prodotto, sta investendo miliardi in un’iniziativa di costruzione di semiconduttori per raggiungere gli Stati Uniti. In gioco non c’è solo la prosperità economica dell’America, ma anche la sua superiorità militare.

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Nel libro, Miller descrive gli eventi che hanno portato gli Usa a conquistare una supremazia nel settore, che gli ha permesso di sconfiggere l’Unione Sovietica, rendendone obsoleto l’arsenale di armi. Il controllo dei semiconduttori diventa così cruciale per gli sviluppi futuri mondiali. Possedere questa tecnologia diventa quindi indispensabile e la Cina ha compiuto grandi sforzi per sviluppare un’industria dei chip, i cui progressi sono ostacolati dagli Stati Uniti. La questione è particolarmente critica, perché la Repubblica Popolare spende più soldi per importare chip che per comprare petrolio, creando così una forte dipendenza da produttori esterni. Ma una gran parte della fornitura globale di chip viene prodotta a Taiwan, l’isola che Pechino considera una provincia separata che, alla fine, farà parte della Repubblica Popolare. Taiwan produce oltre il 60% dei semiconduttori mondiali e oltre il 90% di quelli più avanzati. La maggior parte è prodotta da un’unica azienda, la Taiwan Semiconductor Manufacturing Corporation (Tsmc). 

Taiwan e i semiconduttori

I segnali del crescente conflitto tra Stati Uniti e Cina, che possono essere individuati in diversi ambiti, sono più che mai evidenti nel settore dei semiconduttori. Nel 2022, le vendite globali del comparto hanno raggiunto oltre 618 miliardi di dollari, un incremento di circa il 30% in soli due anni.

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Per quanto significativo, il dato non esprime appieno l’importanza del settore nell’economia globale, visto il diffuso utilizzo dei chip nei più svariati ambiti e prodotti. Se la Cina annettesse Taiwan, gli Stati Uniti potrebbero trovarsi in una situazione molto critica e subire un’interruzione massiccia delle forniture di queste componenti. Grazie alla posizione dominante dell’isola contesa nell’industria dei chip (15% del Pil), la sua economia è stata descritta come la “più indispensabile” al mondo e Tsmc è la società più importante del paese. 

Una storia di successo

Tsmc è l’acronimo di Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, la più grande foundry di microchip al mondo, fondata nel 1987 da colui che è conosciuto come il “padre dei semiconduttori”: Morris Chang. Tsmc è nata da una collaborazione tra il governo di Taiwan, il gigante tecnologico Philips e investitori privati. Morris Chang ha saputo fare crescere negli anni questa industria tanto da farle raggiungere l’attuale posizione dominante grazie alla sua capacità di innovazione, che gli ha permesso di essere all’avanguardia rispetto ai suoi concorrenti. Ha investito continuamente e ha espanso la sua capacità produttiva per tutta la durata della sua esistenza, concentrandosi sui massimi livelli di qualità. «Nel 2022, Tsmc ha servito 532 clienti e ha fabbricato 12.698 prodotti per varie applicazioni che coprono una varietà di mercati finali, tra i quali l’informatica ad alte prestazioni, gli smartphone, l’Internet delle cose (IoT), l’automotive e l’elettronica digitale di consumo. La capacità annua degli impianti di produzione gestiti da Tsmc e dalle sue controllate ha superato i 15 milioni di wafer equivalenti da 12 pollici nel 2022», spiega Miller. In termini di performance, come riportato dal sito della società, Tsmc è «l’unica foundry che produce costantemente risultati finanziari eccellenti. Ha registrato un Cagr dei ricavi del 18,0% e degli utili del 18,6% dalla quotazione in borsa nel 1994», con un fatturato consolidato di 75,88 miliardi di dollari Usa nel 2022. 

Lo scudo di silicio

Sempre in “Chip War”, Chris Miller racconta che Taiwan ha raggiunto questa posizione dominante in gran parte grazie al risultato della strategia geopolitica e della leadership individuale di diversi “padri” dell’industria dei chip, tra i quali lo stesso Morris Chang. Tsmc è lo scudo di silicio che protegge Taiwan da una possibile invasione della Cina e, se fosse rotto, si rischierebbero pesanti ricadute per l’economia mondiale. Ma la questione non è di facile risoluzione, perché, anche attuando politiche di “friendshoring” per ridurre la dipendenza del mondo da Repubblica di Cina per la produzione di chip, occorrerebbero anni per completare questo processo, che peraltro sarebbe difficile da attuare. Nel 2021, Tsmc ha annunciato il progetto di costruire un impianto multimiliardario in Arizona, che non sarà pronto prima del 2025 e che, probabilmente, non sarà in grado di produrre chip per quella che sarà allora la frontiera tecnologica. Inoltre, e non è un aspetto di poco conto, la Cina è il più importante partner commerciale di Taiwan, seguita dagli Stati Uniti. Oltre il 42% delle esportazioni dell’isola di Formosa è destinato alla Cina, dalla quale Taiwan riceve circa il 22% delle sue importazioni. Il Paese è anche tra i primi investitori della Cina continentale, nonostante nell’ultimo decennio abbia ridotto gli investimenti, con un rallentamento più marcato da quando l’amministrazione americana, con Donald Trump, ha inasprito le relazioni con il Dragone e ha invitato le aziende statunitensi a svincolarsi dalla Cina. Il mondo potrebbe vivere senza la catena di approvvigionamento tecnologico di Taiwan? In un articolo del Financial Times viene riportato che, nonostante le aziende occidentali stiano cercando di spostare altrove la produzione a causa dei timori di un potenziale conflitto intorno allo Stretto di Taiwan, non si tratta di un’operazione semplice. E a tale proposito viene riportato il commento di un senior executive della Compal Electronics che invita a non sottovalutare la posizione di Taiwan nella catena di fornitura, perché non riguarda solo i semiconduttori, e lancia un monito sulle possibili conseguenze di attività militari sull’isola, che farebbero crollare la supply chain globale.

Le tensioni nello Stretto

Taiwan rimane quindi un problema spinoso, un palcoscenico sul quale si intrecciano interessi economici, geopolitici e militari, teatro di scontro tra Stati Uniti e Cina. Agli inizi di giugno si è assistito a una consistente incursione aerea di velivoli dell’esercito popolare di liberazione cinese nello spazio di identificazione aerea sud-occidentale dell’isola di Formosa. Si è trattato di un’esercitazione che ha fatto però salire ulteriormente la tensione tra i due paesi. Per di più si è aggiunto il rischio, per poco scampato, di una collisione tra una nave da guerra cinese e un cacciatorpediniere americano impegnato in un’attività congiunta di Canada e Usa sulla libertà di navigazione attraverso lo Stretto di Taiwan. Il futuro dell’isola rimane incerto, anche in attesa delle prossime elezioni presidenziali che si terranno nel gennaio del 2024, il cui risultato potrebbe avere forti ripercussioni a livello globale, visto il periodo carico di tensioni e con pressioni in aumento da parte di Pechino. 

Presidenziali nel 2024

Il prossimo gennaio è perciò un appuntamento importante per decidere il quadro delle alleanze internazionali e il futuro del paese, dove si contrappongono il rappresentante del Guomintang (Gmt) e leader dell’opposizione Hou Yu-Hi e il vicepresidente uscente e candidato del Democratic Progressive Party (Dpp) William Lai. Il primo ha mostrato vicinanza e un atteggiamento dialogante con Pechino, il secondo, invece, si è schierato nettamente contro l’autocrazia cinese. Il terzo candidato in corsa, che potrebbe sparigliare le carte, è l’ex sindaco di Taipei ed esponente del Taiwan People’s Party (Tpp, da lui fondato nel 2019) Ko Wen che, politicamente, si potrebbe collocare nel mezzo dei due maggiori partiti del paese. 

Le posizioni tra i primi due sfidanti sono in netta contrapposizione: il Guomingtang sostiene che nelle prossime elezioni si dovrà scegliere tra “pace e guerra”, mentre il Dpp tra “democrazia e autocrazia”. Di conseguenza, il Gmt ritiene che il voto per il proprio candidato sia una scelta per la pace, mentre il Dpp afferma che il modo migliore per salvaguardare il futuro di Taiwan sia perseguire legami più stretti con gli Stati Uniti e altre democrazie attraverso un dialogo non ufficiale. Ko Wen, invece, si presenta come il terzo incomodo, che potrebbe sottrarre voti ai due maggiori partiti. Soprannominato la “forza bianca”, il Tpp potrebbe essere visto come un elemento di rottura dell’equilibrio bipartitico esistente. In base a quanto riportato in un recente articolo di Nikkei Asia Ko ha affermato di volere cercare il dialogo con la Cina per sostenere la pace, assicurando al contempo che Taiwan abbia sufficienti capacità di difesa come efficace deterrente contro le minacce cinesi. Ha inoltre criticato i suoi rivali nella competizione elettorale, affermando che i due grandi partiti sono intrappolati dal loro “bagaglio storico”: il Dpp per avere perso completamente il rapporto di fiducia reciproca con la Cina e il Gmt per essere “troppo deferente” nei confronti di Pechino.

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Gli obiettivi rimangono, quindi, puntati sulle prossime elezioni, per vedere se e come cambierà la guida politica del paese: è un appuntamento importante che non riguarda solo la scelta di una nazione, ma ha forti impatti sugli equilibri della regione e, in senso più lato, anche a livello internazionale. 

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